Alcune migliaia di musulmani – molti fra loro per la prima volta -hanno assistito domenica 31 luglio a una messa in chiese cattoliche in Francia e in Italia. Questo in risposta all’assassinio di padre Jacques Hamel, l’ottantaseienne sacerdote sgozzato pochi giorni prima da due giovani terroristi sull’altare della chiesa di Saint-Etienne-du Rouvrai, in Normandia. La partecipazione di fedeli islamici a un rito cristiano, in questa occasione, segna forse un momento di svolta nelle relazioni fra le due religioni. Non solamente per la dimostrazione di solidarietà dinanzi a un delitto tanto efferato, ma anche perché il mondo musulmano mostra così di uscire da una sorta di riserva mantenuta sino ad allora nei confronti di violenze e stragi compiute tutte in nome di un Dio (che si pretendeva fosse il loro) feroce e sanguinario.
Con l’omicidio di Saint-Etienne si è completata (anche se purtroppo non c’è da credere sia chiusa) la parabola partita dall’esecuzione dei giornalisti di Charlie-Hebdo a Parigi all’inizio del 2015 e proseguita con gli episodi cruenti del Bataclan, in novembre, sempre nella capitale francese, della metropolitana e del caffè di Bruxelles, dello sterminio nel ristorante di Dakka, in Pakistan, della strage del 14 luglio a Nizza (nell’insieme quasi trecento vittime), insieme con altri fatti soltanto all’apparenza minori verificatisi a Londra, in Germania, ancora a Parigi e Bruxelles, tutti ispirati a un odio ideologico che, nella storia recente, va paragonato soltanto a quello nazista per gli ebrei.
La reazione dei musulmani moderati è stata corale, dal Muftì di Gerusalemme al rettore della grande università del Cairo al-Azhar, agli esponenti di governi islamici. La partecipazione al dolore di quanti (e fra loro si conta un non indifferente numero di fedeli islamici) sono stati colpiti dai terroristi è tanto più significativa perché, accanto alla condanna della violenza, il mondo occidentale e cristiano ha saputo reagire con equilibrio e distinguere fra la pratica autentica di una fede religiosa e la strumentalizzazione di un credo a fini di potere da parte di orde di fanatici.
Alto è salito l’appello di papà Francesco ai giovani del raduno mondiale di Cracovia: “Noi non vogliamo vincere l’odio con più odio, vincere la violenza con più violenza, vincere il terrore con più terrore”, invocando “Dio perché tocchi i cuori dei terroristi affinché riconoscano il male delle loro azioni e tornino sulla via della pace e del bene, del rispetto per la vita e la dignità di ogni uomo, indipendentemente dalla religione, dalla provenienza, dalla ricchezza e dalla povertà”. Né bisogna dimenticare il suo ammonimento: di conflitto si tratta, ma non di guerra di religione.
È la difficile pratica evangelica del perdono. Sulla traccia delle parole del papa si è mosso il mondo cristiano, in particolare dopo l’eccidio di Saint-Etienn: nessuno spirito di vendetta , perché “La divisione e l’odio non sono percorsi cristiani ” secondo le parole dell’arcivescovo di Marsiglia, monsignor Georges Pontier. Per monsignor Giancarlo Perego, direttore di Migrantes, “ogni cedimento alla superficiale e pericolosa coniugazione fra terrorismo e islam genera paura, odio, conflittualità e indebolisce la cultura dell’incontro, la civiltà dell’amore, la sola che può dare un futuro all’Europa”. E la conferenza episcopale italiana sottolinea che “Ancora una volta, il messaggio evangelico e l’esperienza della Chiesa diventano motivo per non arrendersi a logiche di chiusura e di vendetta, ma per costruire – con una rinnovata testimonianza di fede – una società riconciliata e aperta alla speranza”. Così le chiese, in spirito di pace, sono state aperte ai fedeli islamici.