I CONTI, PRIMA O POI, SI FANNO

Nel suo discorso di fine anno (applaudito da tutti e subito dimenticato), il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha detto che con l’inizio della nuova legislatura, tutti i partiti hanno avuto responsabilità di governo. Nessuno escluso. Una situazione del tutto anomala. Nella Prima Repubblica c’è chi restò sempre all’opposizione (Movimento sociale ed estrema sinistra). Il Partito comunista espresse, negli anni della solidarietà nazionale (1976-78), una inedita non sfiducia. Ma era una sorta di terra di mezzo. Nella Seconda o Terza Repubblica (abbiamo perso il conto) le parti si sono scambiate assai frequentemente i ruoli. Come in una commedia goldoniana ma senza che lo spettacolo della politica ne abbia guadagnato in qualità.

L’osservazione di Mattarella aveva come scopo quello di sottolineare che tra lo stare all’opposizione e l’avere responsabilità di governo non vi è soltanto il passaggio di un’elezione vinta. No, c’è un abisso. Ancora più profondo se, nella scarsità di un’etica pubblica condivisa, è diffusa la tendenza a promettere anche ciò che si sa benissimo sarà impossibile mantenere. Una forma di malcostume che denota uno scarso rispetto dell’intelligenza del cittadino. Il movimento Cinque Stelle dovette rinunciare ad alcune delle sue battaglie identitarie (il no per esempio al gasdotto che fortunatamente arriva oggi in Puglia). La Lega, inizialmente contraria all’euro, si acconciò alle regole di bilancio europee che avrebbe voluto gettare in un cestino. E via di seguito.

Nei suoi primi mesi al governo, Giorgia Meloni – che con Fratelli d’Italia aveva conosciuto solo e coerentemente l’opposizione – è stata costretta a fare molta marcia indietro: dal decreto sui rave party (che in Italia si contano sulle dita di una mano), ai pagamenti digitali, all’uso del contante, alle accise sui carburanti. Molti hanno giudicato questi primi passi falsi del governo di destra-centro (più destra che centro) come sintomi di debolezza, di incertezza. Anche chi non ne condivide l’operato, deve però ammettere che se il buon senso prevale sull’ideologia programmatica, sulla voglia a volte infantile di arrivare al potere e cambiare ogni cosa, è una buona notizia per tutti. La prudenza in politica è spesso sinonimo di ignavia, di pavidità. Ma non lo è. In un suo piccolo ma denso saggio (Prudenza, Il Mulino), l’economista cattolico Stefano Zamagni sostiene che “il prudente guarda le cose come sono, senza preconcetti, ha il senso del tempo e agisce di conseguenza. La prudenza ci aiuta a valutare, capire e scegliere”.

Non crediamo che Zamagni sia tra le letture preferite del premier, ma sarebbe interessante se quel prezioso libretto venisse distribuito a tutti i parlamentari. Perché in quel testo vi è il senso del richiamo di Mattarella. Inutile e dannoso far credere ai cittadini di vivere in un Paese diverso, dove non vi sono limiti all’azione di un governo eletto. Chi è molto indebitato può sperare evangelicamente che i suoi debiti possano essere rimessi, o persino cancellati, ma nella realtà di tutti i giorni forse è meglio, prudentemente, che riconosca di essere meno libero. Magari libero di sognare, certo. Ma la fantapolitica semplicemente non esiste. E i conti, prima o poi, si fanno.

L'ECO di San Gabriele
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