Croce e risurrezione costituiscono un unico mistero. E l’Eucaristia? È il caso di dire: già facevamo fatica a comprendere l’unità delle prime due, ora ce ne aggiungiamo una terza! Un teologo attuale – Scott Hann – osserva che se si prende in considerazione soltanto il venerdì santo e la pasqua, la Croce si riduce alla ingiusta esecuzione di un condannato innocente e santo, ma non è un sacrificio pasquale efficace per la nostra salvezza (IO credo, risorgerò, 83-84). Quando Gesù dice: questo è il mio corpo offerto per voi, questo è il sangue dell’Alleanza che abolisce il peccato e riconcilia col Padre, dichiara che l’Eucaristia, come la Croce, opera nel campo del mistero, cioè delle nostre relazioni con Dio stesso. Il corpo offerto è quello della vittima di riconciliazione, in ebraico asham. Il sangue versato è quello nel quale si sanciva sempre ogni Alleanza affinché fosse stabile. Nel libro del Levitico si danno precise prescrizioni, sia per un giorno santo che è chiamato lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione, e sia anche per un luogo e degli oggetti santi, chiamati il propiziatorio. Questo oggetto, che in greco è chiamato l’Hilasterion e in ebraico la kapporet, era posto proprio sopra l’arca santa di Dio nel Santo dei Santi.
L’apostolo Paolo arriva a proclamare Gesù come il definitivo hilasterion o Kapporet, attraverso il quale si ha la remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio. Sono effetti che noi annunciamo ogni volta che celebriamo la consacrazione eucaristica. In Israele, inoltre si spezzava e si benediceva il pane e si distribuiva la coppa del vino sulla quale si era pronunciato il ringraziamento (questo lo si fa ancora). Gesù assume in sé tutti questi riti nella benedizione del pane e del vino dell’Ultima Cena, e li trasforma in strumento di espiazione e di riconciliazione, per togliere il peccato.
Questo è il kerigma, cioè l’annuncio centrale della fede cristiana, ciò che è essenziale nella fede cristiana: Gesù ci ha redento con il suo sacrificio, con il suo sangue versato e ci ha comunicato la vita con la sua risurrezione. Possiamo dire di essere cristiani se non capiamo ciò che è essenziale nella fede cristiana?
Le stesse parole che Gesù e noi ripetiamo nell’Eucaristia ci rimandano direttamente alla sua radice ebraico-biblica nella Torah. Ma come si passa da questa radice ebraica alla fede eucaristica? Non si tratta di un salto mortale? No. Tutta la bibbia ebraica, tutta l’opera dei profeti attua questo passaggio. Partire dal Levitico non significa bloccarsi in quanto stabilisce il Levitico. La Bibbia non è statica, ma dinamica ed evolutiva, non è un trattato scientifico, ma la narrazione di un dramma o, se si vuole, per dirla col teologo Balthasar, di una Teodrammatica, un dramma umano e divino al tempo stesso, che costituisce la storia stessa di Dio in mezzo alla sua creazione. Non è possibile descrivere qui questo passaggio, tuttavia voglio ricordarne alcuni elementi che sono parte essenziale del mistero della fede.
Uno è il senso del peccato. Con un po’ di coraggio riconosciamo che la cultura nella quale viviamo, la cultura moderna dell’Illuminismo, ha smarrito il senso del peccato. Qui possiamo ricordare l’insegnamento del recente Concilio secondo il quale nella sua rivelazione – che si manifesta inizialmente proprio in quei riti di espiazione prescritti dal Levitico – Dio non rivela soltanto se stesso all’uomo, ma rivela anche l’uomo a se stesso. Rivela la fragilità dell’uomo, rivela che almeno qualche volta, c’è anche una grande malvagità nell’uomo, in noi. Questa è la percezione del peccato, come una realtà negativa che ci separa da Dio, dal flusso della sua Vita in noi.
Dio stesso stabilisce delle vittime e dei riti per l’espiazione. Non ha alcun senso che noi pretendiamo giudicare ciò che ci trascende, domandandoci se Dio abbia bisogno di espiazioni e sacrifici, di castighi e di sofferenze.
Il secondo elemento da evidenziare è il passaggio dall’offerta di vittime animali all’offerta di se stessi per compiere la volontà di Do nella propria vita. Lo dice il Salmo 39-40, ai versetti 7-8. Questo salmo è ricordato nella Lettera agli Ebrei, dove è messo esplicitamente sulla bocca del Cristo: “entrando nel mondo Cristo dice al Padre: Tu non hai voluto né sacrificio né offerta… allora ho detto, ecco io vengo, come è scritto nel rotolo del Libro, per fare o Dio la tua volontà… mediante quella volontà siamo stati santificati una volta per sempre” (Eb 10, 5, 7, 10).
Il terzo elemento è il prendere su di sé il peccato degli altri, di tutti, diventando asham, hilasterion kapporet, come è detto nel capitolo 53 del Libro di Isaia che traduco liberamente:
“Quando il mio servo accetterà di essere trasformato in asham, cioè in vittima di espiazione e di riconciliazione vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Padre, egli giustificherà molti, addossandosi le loro iniquità, porterà il loro peccato offrirà se stesso al Padre” (Is 53, 10-12). In questo atto si rivela Dio Padre e il dono che fa di suo Figlio all’uomo; si rivela Dio Figlio con la sua obbedienza incondizionata e si rivela lo Spirito che passa tra i due. Non è in una rivelazione di tipo greco-metafisico, come ad esempio il dire che Dio è un essere perfettissimo e che quindi anche Cristo lo deve essere come il Padre; non è come il definire Dio motore immobile, pensiero del pensiero, l’assoluto.
Proprio quando vediamo il nostro capo che, fattosi vittima, annulla se stesso totalmente, la sua carne come la sua riputazione e la sua personalità, noi diciamo: veramente costui viene da Dio Padre, è Figlio di Dio, manifesta nel mondo ciò che Dio è nel suo mistero profondo e inconoscibile, che è amore e dono. Così esclamò il centurione romano quando lo vide donarsi nella morte (Mc 15, 39).
Di fronte a questa manifestazione di Dio, mi metto in ginocchio e intendo rimanere sempre così. Ma soprattutto dico Grazie. Eucaristia vuole dire ringraziamento, tanto è vero che in alcuni villaggi greci dell’Italia meridionale per dire grazie si dice eucaristò. Diciamo grazie, anzi diventiamo un perenne ringraziamento alla bontà di Dio.