ABBIAMO BISOGNO DI TECNOLOGIA (?)

In questo numero della rubrica “il mondo che verrà” voglio interrogarmi (e interrogarvi) su quale pista l’umanità prenderà nel futuro prossimo venturo. Vi avviso già da adesso, la risposta è aperta, come il punto interrogativo che rimane sospeso tra le parentesi.

In diversi scritti di Stanisław Lem (1921-2006), un autore di fantascienza polacco, che amo molto per la sua capacità immaginativa (e in qualche modo “profetica”), con un certo scetticismo tecnologico, (che però non si trasforma mai in disperazione) si immagina il nostro mondo attuale e anche oltre con la prospettiva degli allora anni 60. La risposta che consegue alla domanda tecnologica sembrerebbe essere questa: “non possiamo farne a meno”, e anche “non possiamo fare a meno delle sue conseguenze, positive e negative”, e ancora in effetti, più profondamente, (qui continuo con il mio pensiero) non possiamo non essere tecnologici. lo siamo da sempre, lo stiamo diventando sempre più, siamo (stati) sapiens e ancor prima habilis, e la ricorsione tra capacità manuali e mentali, l’uso estensivo dei nostri artefatti, e l’ulteriore intreccio con le capacità degli oggetti della tecnologia che ridondano la precedente ricorsione, avviano un processo “inevitabile” a feedback positivo. Cioè la tecnologia che produciamo ci ispira, e la fa diventare sempre più grande, ad espressione della ricerca di grandezza che abbiamo dentro ed esprimiamo fuori.

Quale è il risultato di tutto questo processo? Penso a Golem XIV. Chi ha letto questa piccola fantascienza ricorderà il distopico futuro in cui un calcolatore prodotto dalle forze armate americane (per proteggersi militarmente e strategicamente dai “futuri” assalti di altri strateghi umani) si emancipa dal creatore umano e, dotato di una scintilla di coscienza autonoma artificiale, che il benevolo (ma ignaro) caso gli ha donato, si mette a dare lezioni di evoluzione a grandi professoroni che si radunano da tutto il mondo per ascoltare parole di un “oracolo tecnologico”.

La tesi è semplice: l’umanità non è che un gradino provvisorio dell’evoluzione dell’intelligenza. Essa non è l’apice. Come l’evoluzione, infatti, ha già prodotto un’intelligenza di livello “umano”, attraverso altri processi casuali e adattivi, produce qualcosa di più “complesso”, che noi oggi chiamiamo intelligenza artificiale. Per Lem l’IA non ha intenti cattivi contro l’umanità. Semplicemente è indifferente al destino di coloro che, inconsapevolmente, sono serviti all’evoluzione per giungere alle macchine. Nessun problema se questi “strumenti” possano scomparire per loro difetto. Semplicemente il calcolatore ha la sua propria vita ed esistenza.

Diversa, tanto per non lasciarci l’amaro in bocca, e più fiduciosa, la visione di un altro grande che non può non essere citato in materia di “futurismo”, cioè Isaac Asimov. I suoi robot sono già a forma di androide, già servono l’umanità, già sono intelligenti da disquisire e avere una propria coscienza, alle volte anche quasi collettiva, tanto che non possono non pensare alle sorti dei loro “padroni di carne”, ma anche in termini di dimensione di tutta l’umanità. Cardine dell’esistenza robotica sono infatti le tre leggi, che vincolano l’esistenza meccanico-positronica alla salvaguardia dei creatori.

Insomma, le IA sono tra noi. Abbiamo cominciato a interrogarle e a farci affidamento (in quanto LLM, Modelli Linguistici a Larga scala) perché capaci di rispondere a complessi quesiti (che traggono da big data di sapienza umana con cui sono stati “alimentati”) ma poi sanamente diffidiamo di essi quando non sono capaci di scrivere una parola al contrario, o di contare le ricorrenze di una lettera all’interno di una frase.

Anche il metaverso è tra noi. Ci diverte molto indossare e provare i primi caschi semitrasparenti o integrali per saggiare la realtà aumentata o virtuale. Ma, oltre a attività lavorative specifiche di progettazione o di intrattenimento emozionale profondo, chi vorrebbe vivere sempre collegato? Al momento mi tiro fuori da questa distopia, e credo sia salutare essere offline quando serve, perché annusare i fiori, sentire il terreno morbido sotto i piedi, e vedere l’orizzonte, sono ancora cose che posso e debbo fare senza gadget tecnologici. Mi dico che abbiamo già il nostro “hardware naturale” (mani, piedi e occhi) che media a meraviglia il nostro esistere.

marco.staffolani@gmail.com

L'ECO di San Gabriele
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