Le persone anziane, che non possono tornare indietro con gli anni, volentieri tornano con la memoria ai tempi passati, spesso rimpiangendoli. Il poeta avrebbe sentenziato: “laudatores temporis acti”. In questo atteggiamento, quello cioè di ricondurre gli atti compiuti oggi a modelli passati, vi si possono leggere due tendenze: quella del conservatore che trova difficoltà a comprendere i modelli comportamentali del moderno e quella della persona, molto spesso un politico, che non si rassegna alla fine di un’epoca nella quale la propria visione del mondo trovava piena e completa rispondenza di spirito e di azione nei meccanismi politici di organizzazione partitica. Chi non ha sentito, finanche qualche settimana fa, frasi del tipo: “Per rilanciare l’Abruzzo bisogna fare come faceva Remo Gaspari; bisogna portare le istanze della regione a Roma”; oppure: “Riportare l’Abruzzo agli anni 60 quando il Prodotto interno lordo cresceva a ritmi cinesi”.
Pur volendo sorvolare, completamente, sulla questione relativa a quello che il nostro passato politico recente ha “storicamente” significato nella costruzione narrativa del sistema clientelare e corruttivo della nazione tutta, rimane da analizzare questa tendenza a guidare la cosa pubblica con la testa rivolta indietro o se volete a condurre con lo sguardo fisso sullo specchietto retrovisore.
Da che cosa è dovuto questo meccanismo di lettura del presente con lenti retrospettive che impedisce di valutare oggettivamente la portata degli avvenimenti? Per la verità si tratta di un comportamento che non riguarda tutti i politici, ma per qualcuno di loro l’interruzione della vita dei partiti storici, prodottasi all’inizio degli anni 90, è stato un trauma che ancora oggi stenta a rimarginarsi ed è capace di produrre ancora visioni che vorrebbero decodificare la post-modernità politica con paradigmi che i giovani di oggi stenterebbero a comprendere. Segno questo, evidentemente, che quella cultura politica ha tracciato così profondi solchi sulla formazione dei ceti dirigenti che, gattopardescamente, sono sopravvissuti alla morte – qualcuno direbbe – delle ideologie. In realtà non sono le ideologie a essere morte (altrimenti nel sepolcro bisognerebbe inumare anche le utopie, ma di queste abbiamo ancora tanto bisogno), ma solo l’uso distorto che se ne è fatto.
Ebbene, i ceti dirigenti (nei diversi livelli istituzionali e della pubblica amministrazione), sopravvissuti ai partiti ideologizzati, non hanno ancora maturato una capacità intellettuale che consenta loro di elaborare nuovi paradigmi o idee-guida in grado di dare una visione di prospettiva e quindi di razionalizzazione e contemperamento delle dinamiche sociali, economiche e culturali verso soluzioni di sviluppo innovative. La causa di questa incapacità? Probabilmente il lento ricambio generazionale del ceto dirigente, nazionale e regionale, ma anche il fatto che quando ricambio c’è stato ha riguardato solo l’aspetto anagrafico di “fanciulli”, in realtà, nati vecchi, ossia nel crogiolo di un condizionamento politico che sembra essersi ispirato alla letteratura di Huxley. Se questi personaggi non gireranno la testa in avanti (ammesso che ci riescano) rimarranno affetti da una sorta di nanismo politico che, alla lunga, sfocerà in farsa.