“Stabiliamo “Stabiliamo con loro – osserva il celebre psichiatra e scrittore – il tempo di esposizione ai videogiochi, facendo però un programma settimanale e non giornaliero. La stretta imposta dalla Cina? Credo che tale limite debba far parte di un processo educativo e non, invece, di una legge imperiosa figlia di una cultura che lascia molto a desiderare sul piano del rispetto anche dei diritti umani…”
Un’ora sola ti vorrei… Il titolo della canzone cult della musica italiana, scritta nel 1938 da Pippo Bar-zizza e nel corso degli anni riproposta da tantissimi artisti italiani, potremmo trasformarlo in Un’ ora sola ti darò… riferendoci alla recente stretta del governo cinese sui videogiochi online per tutti i minori di 18 anni. Un’ora al giorno per tre volte a settimana, venerdì, sabato e domenica e durante le feste comandate. Il tutto in una fascia oraria ben precisa: dalle 20 alle 21. Alle 21 e un minuto, dunque, schermi spenti: computer, smartphone, consolle. E guai a chi vìola il coprifuoco…
Le nuove regole interessano anche le piattaforme chiamate a far rispettare severamente i nuovi divieti. In pratica agli utenti non registrati e non verificati dovrà essere negato l’accesso ai giochi online. Naturalmente per il funzionamento di queste misure occorrerà collegare tutte le piattaforme a un sistema anti-dipendenza gestito dallo Stato e accertare che tutti gli utenti accedano con un’identità reale. Saranno quindi intensificati i controlli per garantire che le aziende seguano le nuove disposizioni.
Insomma, le autorità governative cinesi si dicono fortemente preoccupate per la dipendenza dal gioco e altre attività online, che considerano dannose per i giovani. Ma è veramente questo l’unico intento di chi, udite udite, è il primo mercato al mondo per i videogiochi con 36 miliardi di dollari nel 2020 e circa 740 milioni di “giocatori? Tanto per rendere l’idea, una popolazione che è la somma di quelle di Usa, Giappone, Germania e Regno Unito! Visto che negli ultimi anni la Cina ha posto molti limiti all’espansione del settore tecnologico del Paese, preoccupandosi dei monopoli, del potere guadagnato dalle aziende del comparto, qualche pensiero malizioso circa le motivazioni sorge spontaneo… Anche se certamente la tutela della salute delle nuove generazioni resta un nobile sentimento. Priorità che dovrebbe riguardare il mondo intero vista la trasformazione in atto, ahinoi, della società reale in quella virtuale grazie alla fruizione dei nuovi media: Internet, videogiochi, smartphone, tv, Pay tv, eccetera, eccetera. Ormai si parla di famiglia digitale dove i social network stanno scavando un solco profondo tra reale e virtuale. E soprattutto nella comunicazione familiare e nei rapporti sociali. In nome della connettività non c’è più tempo per guardarsi negli occhi, commentare la propria giornata, comunicare le proprie esperienze, confessare timori e fragilità. Per non parlare delle relazioni “esterne” che aumentano nel numero e nella velocità ma che di fatto, nella gran parte, sono sempre più superficiali. Come trasformare allora questo mondo digitale in un luogo educativo?
In questo percorso pieno di insidie ci facciamo aiutare da una delle menti più brillanti nello studio degli uomini, delle donne e soprattutto dei ragazzi e delle ragazze di oggi, sui loro stili di vita, sui loro atteggiamenti verso gli altri e la vita stessa. Parliamo del celebre psichiatra e scrittore Vittorino Andreoli, un cattolico con la C maiuscola e un caro amico della nostra rivista.
Professor Andreoli, cosa ne pensa della recente stretta del Governo cinese in merito all’utilizzo dei videogiochi da parte dei minorenni?
Senza dubbio i videogiochi hanno una grande capacità attrattiva sul mondo giovanile, addirittura sull’età infantile, di conseguenza occorre vigilare. È una sorta di richiamo forte, iniziato il gioco è poi difficile smettere. In questo caso è il governo cinese a intervenire, ma c’è un precedente, accaduto diversi anni fa, che riguarda Bill Gates. All’epoca aveva una figlia diciassettenne e in un’intervista disse che le aveva permesso un’ora e mezza di esposizione ai giochi di internet. Uno dei più grandi produttori di virtualità, dunque, già in tempi non sospetti giudicava che un’esposizione prolungata fosse negativa. Il limite per non essere esposti molto tempo è di per sé un buon consiglio, anche perché dal punto di vista psicologico il rischio è che si arrivi a una vera dipendenza e quindi a una incapacità di staccarsi, manifestando poi sintomi di astinenza quando ad esempio si chiude internet… Il problema, però, è il modo.
Cioè?
Credo che tale limite debba far parte di un processo educativo e non, invece, di una legge imperiosa figlia di una cultura che lascia molto a desiderare sul piano del rispetto anche dei diritti umani. È comunque un tema che tutti noi, a iniziare dalle famiglie, dobbiamo tenere in considerazione perché riguarda l’educazione.
Non a caso, infatti, l’Organizzazione mondiale della sanità ha deciso di inserire la dipendenza da videogiochi nella International Classification of Diseases, la “lista ufficiale” delle malattie …
Esattamente. Mi permetta però di fare un’osservazione per i genitori, non per un regime verso il quale non ho grande simpatia…
Prego…
Quando ad esempio si dice non più di un’ora vuol dire non conoscere i videogiochi… Quelli tra i più usati, infatti, prevedono un percorso, un confronto tra diversi giocatori anche se uno può trovarsi a Milano e l’altro a Sidney… Sono giochi che hanno una procedura, si chiamano appunto giochi di ruolo. Ecco, allora, che il tempo per concludere un gioco di ruolo, che come ripeto non è singolo, serve un’ora e mezza. Quindi il diktat che pone il limite di un’ora non ha senso.
Anche il gioco, dunque, va rispettato…
Assolutamente sì. È un tema però che riguarda l’educazione e non il diktat di una nazione, di conseguenza deve essere flessibile. Naturalmente non può mancare.
Quali consigli, dunque, per i genitori?
Ad esempio suggerirei di fare un contratto con i figli in modo da stabilire il tempo di esposizione. Facendo però un programma settimanale e non giornaliero. Può essere, infatti, che un giorno nostro figlio si sia costituito un gruppo di amici con cui giocare, magari anche per due ore e mezza… In quel caso obbligargli di smettere sarebbe come se durante una partita di calcio una mamma entrasse in campo portandosi a casa il figlio… Quindi è ammissibile che un giorno, dove magari c’è maggiore disponibilità di tempo o magari perché si ha meno voglia di studiare, cosa che può starci, passi più tempo con i videogiochi sapendo però che nel corso della settimana non potrà superare il limite di ore stabilito.
Quali segnali, invece, devono metterci in allarme?
È importante valutare la fatica che si ha nel distaccarsi dal gioco. Ci sono delle condizioni in cui il ragazzo, terminato un gioco, chiude internet senza che ci sia qualcuno a dirglielo. Occorre osservare come riesce a liberarsi di un legame che può diventare ossessivo e dipendente. Un dato da tenere assolutamente in considerazione è che sia l’infanzia e l’adolescenza sono età dove si legge sempre meno. Invece può essere un gioco anche una favola, magari raccontata ai più piccoli dai nonni oppure la lettura di un libro. O ancora parlare, scherzare dentro quelli che sono i rapporti interumani.
Una problematica, dunque, che non riguarda solo la Cina…
Proprio così. Il problema si impone anche da noi perché secondo gli ultimi dati un adolescente resta esposto a internet cinque/sei ore al giorno. Sicuramente il tempo non sarà tutto dedicato ai videogiochi, ma comunque resta un’esposizione non accettabile. Anche perché sul piano educativo sarebbe un disastro. Se un ragazzo infatti trascorre sei ore a scuola e, una volta casa, altre sei navigando e giocando in internet, quand’è che partecipa a quella che è la dimensione della famiglia? Quand’è che ha tempo di fare altro, magari qualcosa di creativo insieme a persone reali? Socializzare, cioè, con persone in carne e ossa… Il problema, dunque, esiste, quello che è discutibile è il modo dell’iniziativa cinese.
Tra l’altro la scure del Celeste Impero si abbatte anche sul diritto di privacy…
Esattamente. La mia domanda, dunque, è la seguente: la famiglia in Cina è importante oppure viene prima la nazione? Ricordo che anni fa, ad esempio, esisteva una stretta anche sulla procreazione, cioè non più di un figlio a famiglia… A me pare che la civiltà Occidentale non vada molto bene, però crede nella famiglia dando senso a quelli che sono i piani educativi che vengono fatti insieme alla scuola. Ripeto, non mi pare invece che tali iniziative vadano a favorire i piani educativi delle famiglie. Tutto, invece, dev’essere conseguito con i tipi di rapporti e relazioni che esistono nel nucleo familiare.
Addirittura un giornale statale cinese ha definito i videogiochi “un oppio per lo spirito”…
Una definizione assurda. Se si sostiene che il gioco è necessario per la crescita e la socialità, è importante che i bambini giochino. Si pensi alla grande educatrice Maria Montessori, una straordinaria cristiana che vedeva la scuola come gioco. Cioè il gioco come strumento di socializzazione. Anch’io difendo il gioco come strumento di esperimento. Ad esempio una volta i bambini giocavano alla maestra, s’immaginavano in quel ruolo. Tutto questo confronto, dunque, è importantissimo per lo sviluppo sociale, ovviamente il tutto deve essere fatto con criteri che sono propri dell’educazione.
Ma i videogiochi, professore, cambiano la struttura e il modo di operare del cervello? Alcuni studi scientifici ipotizzano effetti benefici sull’attenzione e l’apprendimento…
In un bambino con uno sviluppo inserito nella regolarità, internet non va demonizzato bensì adeguato, dimensionato. Dove dimensione vuol dire anche tempo di esposizione. Bisogna fare in modo che, per esempio, quest’attività di videogiochi non impedisca al bambino o all’adolescente di partecipare a giochi che abbiano invece scopi più sociali perché sono interattivi, perché ci sono altre persone vere e non immagini. Il videogioco manca di empatia, non crea legami e sentimenti. Naturalmente ci sono poi dei casi in cui si può usare Internet anche come sistema di stimolo terapeutico, parliamo di casi che hanno bisogno di stimoli particolari. Nei casi di autismo digitale, invece, si sta bene solo dinanzi a un televisore o allo schermo di un computer. Se vengono spenti, infatti, si manifestano tipici sintomi da astinenza.
E in quel caso come se ne esce?
Io mi sono occupato in particolare di adolescenti dipendenti Bisogna curarli, staccarli dal televisore e riabituarli al mondo concreto. Non avvertono neanche più il corpo, non sanno più toccare, è come se l’insieme dei sensi si fosse ridotto alla vista e al dito indice per cliccare… In questi casi gravi bisogna far toccare loro il reale, far conoscere gli affetti veri, i sentimenti perché tutto è diventato stimolo visivo.
Anche la scuola e altri settori sociali potrebbero adempiere alla responsabilità della tutela dei minori? In che modo?
Certamente. Il problema della scuola però è enorme. Io ad esempio non condivido che si impedisca di portare in classe lo smartphone. Ovviamente non per usarlo individualmente ma per insegnare cos’è questo strumento, per mostrare come si possa usare anche per lo studio. L’esclusione a prescindere di quest’oggetto tecnologico mi sembra un grosso errore. Il grande fascino di Internet, infatti, è che se al ragazzo non piace una cosa che ha sul video schiaccia e ne trova un altro… Se invece a casa non gli piace la nonna o a scuola l’insegnante deve adattarsi… La scuola dovrebbe mostrare l’utilità di questo strumento. Ad esempio si potrebbe studiare la storia vedendo un bel documentario sull’ultima guerra mondiale anziché leggere venti pagine di libro… E se tutti hanno lo smartphone il rapporto con quel documentario può essere corale. Naturalmente, poi, riposto lo smartphone, si discute insieme sull’argomento. Poiché lo smartphone è così importante nella vita dei ragazzi, non è possibile che venga escluso nella scuola dove si deve imparare a vivere. Perché quindi non imparare a usarlo nel modo giusto? In quel caso diventerebbe uno strumento su cui educare e per educare.