UN CIAK CHE ARRIVA DAL CUORE

Nel bellissimo docufilm Vulnerabile bellezza, vincitore di premi prestigiosi, il noto regista marchigiano racconta un anno di vita trascorso con una giovane coppia di allevatori di Ussita,dopo il terribile terremoto del 2016 nel Centro Italia. “Dobbiamo ripartire dalla famiglia, dalla forza dei legami e da quella dell’amore”

L’amore per le proprie radici, la caparbietà di non rinunciare ai propri sogni e uno straordinario legame familiare con quattro vite e un’anima sola. È la bellissima storia di Stefano Riccioni e Michela Paris, dei loro figli Emma e Diego e di un territorio, nel cuore dei Monti Sibillini, sfigurato dal terribile terremoto del 2016. A raccontarcela in maniera magistrale è il famoso regista marchigiano Manuele Mandolesi, autore di Vulnerabile bellezza. Un docufilm, realizzato da Respiro Produzioni, che ha vinto il prestigioso premio cinematografico il Globo d’oro 2020 e quello come miglior film italiano al Festival dei Popoli di Firenze. Una narrazione veramente emozionante dove nel focus della cinepresa è finita la quotidianità di una giovane famiglia di allevatori di Ussita (Macerata), che ha scelto di mantenere la testa alta e lo sguardo dritto dinanzi alle tante avversità causate dal sisma. Casa e fattoria distrutte, sogni in frantumi, disagi e precarietà compagni di albe e tramonti. Soprattutto un futuro sfocato che ti stringe la gola consegnandoti nelle braccia dell’ansia… Il terremoto, si sa, toglie ogni certezza, Stefano e Michela, però, hanno capito che in quella sventura avrebbero potuto trovare il modo di rafforzare la loro autostima mettendoci dentro anche la dimensione di vulnerabilità e di limite. Così grazie alla loro resiliènza e soprattutto all’essere famiglia, cioè la risorsa più preziosa della società, pian piano hanno recuperato la loro vita e anche i loro sogni. Prima del terremoto allevavano mucche e pecore, oltre ad avere la gestione di un maneggio. Con il sisma avevano perduto tutto. Sembrava tutto finito. Come accade, però, il dolore è sempre accompagnato dalla capacità di affrontarlo, così Stefano e Michela hanno imparato in fretta ad accettare la realtà con le sue tante facce: fatica, sofferenza, angoli bui ma anche spiragli di luce. E grazie a uno di quelli e alla donazione Dario Osella, il fondatore dell’omonima Fattoria casearia piemontese, hanno abbandonato la precarietà del camper tornando ad essere famiglia in una casetta di legno. Quindi piano piano, sacrificio dopo sacrificio, con l’aiuto dei loro risparmi e dello Stato hanno rimesso in piedi la loro vita, costruendo nuove stalle e incrementando l’allevamento. Oggi, infatti, hanno circa trecento pecore, mucche, cavalli, conigli, eccetera. Ma soprattutto quel chiarore si è trasformato in una luminosa luce di vita.

Manuele Mandolesi è riuscito a raccontare tutto questo con grande qualità e sensibilità, senza però sfociare nel pietismo e nella commiserazione. Al centro ha messo l’amore di questa famiglia e il desiderio di tornare a essere liberi dimostrandosi più forti delle avversità. Ha trascorso con loro più di un anno, è diventato uno di famiglia e non, invece, un regista con la telecamera sempre accesa pronto a “rubare” la loro quotidianità. Le riprese, infatti, hanno avuto tempi molto dilatati, circa una settimana ogni mese e mezzo, un particolare che ha fatto la differenza. D’altra parte è un professionista di assoluto talento che colloca sempre l’uomo al centro. E quando può cerca di percorrere strade alternative a quelle “forzate” del mercato…

Ascoltiamolo.

Il 30 ottobre 2016, il giorno della scossa più forte del terremoto che devastò il Centro Italia, eri nelle Marche. A quattro anni dal terribile terremoto, che di fatto ha cambiato la geografia del territorio e la vita di migliaia di persone, qual è il ricordo che non ti ha mai abbandonato?

Sicuramente il racconto dei miei amici di Ussita e Visso, un racconto che non ho voluto mettere nel documentario… La montagna che sembrava scendere giù, il polverone che si alza, la strada che fa le onde a causa della forte scossa. E poi il racconto del vuoto, che ho sottolineato anche nell’altro film sul terremoto, Questa è casa nostra. Quel vuoto che appare quando tutto ti crolla attorno, ma soprattutto dentro di te… Quella di Michela e Stefano è anche una storia di speranza dove riescono a superare ogni difficoltà grazie a un legame forte, familiare e con il loro territorio. La verità, però, è che la maggior parte delle persone questo trauma non lo ha superato, e chi ci è riuscito lo ha fatto con grande difficoltà. Tanta gente, di fatto, non è tornata più nella propria terra, lo spopolamento ha superato il 40%, accompagnato da un largo consumo di psicofarmaci e alcol… Quando abbandoni il territorio ogni certezza ti vola via…

A distanza di anni la ricostruzione, purtroppo, resta è una parola “vuota”, le famiglie restano lontane dal loro passato e l’emergenza abitativa è sempre lì… Come se ne esce? È solo colpa della burocrazia?

Ho deciso di fare questo film proprio perché, avendo vissuto professionalmente tante altre emergenze a livello nazionale, sapevo quale sarebbe stato l’epilogo…

Cioè?

Il terremoto dell’Aquila è un esempio eloquente, ma ce ne sono tanti altri come quello dell’Irpinia, della Sicilia dove addirittura c’è chi abita ancora nei container… Ero consapevole del fatto che sarebbe stato un processo lungo e difficoltoso. Non avendo dunque fatto nulla, professionalmente parlando, nel mio territorio, ho deciso di realizzare un progetto che inizialmente prevedeva due documentari e una docuserie che, purtroppo, non sono riuscito ancora a chiudere. E volutamente ho scelto di farlo fuori tempo…

Mandarlo in visione a distanza di anni, dunque, è stata una scelta ben precisa…

Assolutamente sì. Voglio uscire, mi sono detto, quando ormai più nessuno parlerà del sisma, quando la cosiddetta emergenza sarà finita… Volevo che si continuasse a parlare del territorio, di quella situazione precaria a cui accennavi e che le persone stanno ancora vivendo… È vero, dopo due anni hanno avuto le Sae, le soluzioni abitative in emergenza, però i servizi latitano… Magari non hanno più il dottore, oppure l’ospedale e il supermercato sono distanti, e quindi difficili da raggiungere dalle persone anziane. E come se qualcuno avesse studiato un piano per non rendere più abitabili queste zone e quindi risparmiare le spese per i servizi da fornire… Insomma, i pochi nuclei abitativi avrebbero avuto un costo troppo alto…

Uno scenario di certo inquietante se fosse vero…

Capisco che può sembrare assurdo, ma il pensiero ti viene. Anche perché, diciamocelo chiaramente, parliamo di pochi votanti…. Ovviamente questo è il mio pensiero. Non voglio puntare l’indice contro nessuno, però se offri una soluzione per vivere l’emergenza priva di servizi importanti, senza consentire di lavorare alle varie attività esistenti e senza proporre neanche luoghi di aggregazione, la strada è quasi segnata… Alcuni, però, figli del carattere forte marchigiano, soprattutto agricoltori e allevatori, sono restati nonostante tutto.

Nasce per raccontare questo Vulnerabile bellezza?

Come dicevo, il primo obiettivo è stato quello di farlo uscire fuori tempo in modo da riaccendere i riflettori sulla mia regione. Il progetto si chiama La vulnerabilità della bellezza, mentre il primo documentario porta il titolo di Vulnerabile bellezza. Questo perché l’Appennino, parlo in generale, rappresenta un’unica regione, è un posto eccezionale, bellissimo che va rivalutato e soprattutto salvaguardato. Se non ci sono le persone che lo abitano, infatti, alla fine non può che perdersi. E poi c’è la vita, la bellezza delle persone di montagna con un carattere forte, che non si abbattono, grandi lavoratori che si alzano alle cinque del mattino, ad esempio, per portare l’acqua alle pecore… Una giovane coppia che ha affrontato una miriade di difficoltà per poi tornare a vivere in quei luoghi. La cosa interessante del film è un punto di vista diverso dal solito racconto di un terremoto. E essendo un evento naturale, come ad esempio il Monte Bove che si rigenera dopo le tremende scosse, anche noi dobbiamo fare in modo di superare questo trauma cercando di migliorarci. Questo è il momento di rimboccarci le maniche.

Nel film ci sono scorci naturali fantastici. Qual è il segreto per dar voce al Creato attraverso una cinepresa?

Direi l’ascolto, ma vale anche per i personaggi. Il rapporto che instauro con le persone quando faccio un documentario è quella di una relazione lenta, non gli sparo la telecamere in faccia. Nel caso di Vulnerabile bellezza sono salito a Ussita a febbraio, qualche mese dopo il terremoto quando ormai le persone e tutto il circolo mediatico stavano andando via. Sono arrivato senza telecamera, ho fatto qualche giro nei dintorni, ho risentito qualche amico che avevo sul territorio, ho cenato qualche volta con loro. E in quelle occasioni ho conosciuto Michela e Stefano.

Però non sei subito partito con l’idea del film…

No, pian piano ho iniziato a condividere con i residenti ciò che avevo in mente, creando così un rapporto di fiducia. I miei più belli documentari sono venuti fuori quando ho avuto tempo per realizzarli, cosa che accade raramente visti i ritmi frenetici delle grosse produzioni. Tutto ciò è stata un’ulteriore soddisfazione, parlo a livello produttivo, perché abbiamo realizzato il tutto con due spiccioli rispetto al budget di un normale film…

Budget al quale hai contribuito tirando fuori di tasca i soldi per finanziare la ricerca e le prime riprese… Quindi hai promosso una sorta di colletta coinvolgendo alcune aziende e ricevendo anche alcune donazioni private. Insomma, un modello produttivo che parte dal territorio…

Esattamente. Inizialmente ho investito i miei soldi, poi sono riuscito a coinvolgere alcune aziende. Ho fatto ciò che solitamente avviene nei festival….

Cioè?

Una sorta di dibattito con i potenziali compratori. Complessivamente hai a disposizione 10 minuti: 7 in cui parli del film e 3 per proporre in visione un piccolo trailer della storia che non hai ancora prodotto o che hai girato in parte. Con quell’operazione, dunque, cerchi nuovi sostenitori per il film. Ho fatto la stessa cosa con le aziende. Ho inviato alcune pagine che raccontavano il progetto insieme a un video di 3 minuti. Successiva-mente sono andato a trovarle proponendo di entrare nell’idea.

Chi ha risposto all’appello?

Ho contattato più di 100 aziende, mi hanno risposto in 10 ma alla fine solo 4 hanno contribuito concretamente al progetto. La Faber di Fabriano, Acqua Nerea che ha le sorgenti Castel Sant’Angelo sul Nera, uno dei luoghi più colpiti nella provincia di Macerata, XL Extralight che è di Morrovalle ed Electri di Civitanova Marche. Senza di queste sinceramente non ce l’avrei fatta, anche perché oltre la somma anticipata non potevo andare…

Perché la scelta della storia è caduta sulla famiglia Riccioni?

Li ho incontrati tramite amici a Ussita, dove in totale erano rimaste dodici persone. Vivevano nei camper e mangiavano tutti insieme in una casetta di legno. Anche loro inizialmente erano stati mandati sulla costa ma poi erano tornati nel paese vivendo appunto nei camper. Sono stato subito colpito dalla personalità e dallo sguardo magnetico di Michela, una mamma eccezionale e una donna fortissima. È un po’ il traino della famiglia. Stefano, invece, per me rappresenta la marchegianità, il duro lavoratore con le mani segnate dalla fatica, che parla poco ma fa tanto. Subito, dunque, mi sono apparse due persone interessanti a cui si sono aggiunti due figli eccezionali che vivono in un modo un po’ tra virgolette selvaggio. Cioè sono liberi nella natura, giocano con ogni cosa che lo splendido habitat offre loro. Bambini completamente diversi da quelli che siamo soliti vedere nelle nostre città. Quando li ho conosciuti ho subito capito che avrei potuto tirarci fuori una bella storia. La storia di una bella famiglia.

Come sei riuscito a coinvolgerli?

È stato fondamentale creare un rapporto tra persone prima ancora che professionale. Di vista ci conoscevamo, ma non ci vedevamo da più di vent’anni. Ho lasciato le Marche più di vent’anni fa, ma proprio attraverso la realizzazione di questo film ho deciso di tornare nella mia terra insieme alla mia compagna, anche lei marchigiana, a nostra figlia Emma, nata nel 2019 e alla seconda bambina che stiamo aspettando… Abbiamo preferito tornare nei luoghi dove vivono anche i nostri genitori. Io, naturalmente, seguiterò a muovermi come ho sempre fatto, in quanto il mio lavoro non ha una base fissa. Tornando alla tua domanda, solo dopo mesi di frequentazione con la famiglia Ricci ho tirato fuori la telecamera. Le prime registrazioni sono iniziate a maggio.

La telecamera in effetti nel film appare molto discreta, nel senso che non raccoglie mai una testimonianza diretta…

Esattamente. Avendo trascorso molto tempo con loro e instaurato un determinato rapporto, quasi da familiare “aggiunto”, tutto è diventato naturale. I bambini, ad esempio, spesso chiedevano ai genitori quando sarebbe tornato zio Manuele… Queste cose ti segnano, resta un rapporto di amicizia molto forte.

Quali sono stati i momenti più difficili a livello produttivo?

Quando sono finiti i soldi… Fortunatamente è arrivato un privato che ci ha dato una bella mano consentendoci di finire le riprese e finalizzare la produzione. Oltre naturalmente all’aspetto emotivo che, nel raccontare certe storie, non può non incidere. Ci sono stati momenti forti, frammenti di storia vera in cui io e l’operatore della fotografia abbiamo pianto… Avendo fatto diversi documentari, ad esempio sono stato sei mesi impegnato nell’operazione Mare nostrum sugli sbarchi, un anno a Lampedusa, la vicenda delle discariche abusive nel napoletano e i tanti casi di tumore, si pensa che alla fine ci si abitui…

Invece?

Non è sempre così. Cerchi di essere distaccato ma alla fine le emozioni le avverti. La bellezza di questo lavoro è conoscere persone diverse e condividere diversi momenti con loro. Cosa che non ti sarebbe possibile con un’altra professione.

Più di un anno trascorso con loro, scandito dal susseguirsi delle stagioni: quanto è stato difficile non violare l’intimità e nello stesso tempo far vivere la quotidianità allo spettatore?

Ho osservato molto il loro modo di vivere e la loro giornata, cercando di catturare i momenti più importanti. Ogni volta che salivo a Ussita mi portavo dietro lo scritto di quello che avrei voluto raccontare. Cioè: questa scena cosa mi racconta? Oppure: come faccio a raccontare questo argomento che voglio evidenziare? Con quale scena riesco a farlo non potendola spiegare attraverso un’intervista? Ad esempio la scena di quando la sera mettono al letto i bambini, l’avevo vissuta più volte di conseguenza l’abbiamo girata in due sole riprese. In pratica la direzione era quello di uno sguardo discreto ma intimo. Non volevo essere invadente sparando la telecamera in faccia, bensì stare con loro in modo da non esserci differenza tra quando giravo e quando non giravo. Spesso le riprese sono state di un solo take in quanto neanche si accorgevano della mia presenza come regista…

Il tuo lungometraggio rappresenta un vero e proprio inno alla vita e quindi all’amore. Emerge la consapevolezza di come sia un grandissimo dono, di conseguenza va apprezzata, condivisa e difesa con le unghie… Qual è a tuo avviso la strada per rieducare il mondo alla speranza?

Questo è un film che parla sì del terremoto ma che racconta soprattutto l’istituzione famiglia, la forza dei legami, quella dell’amore. Partendo da queste piccole cose, si è già un pezzo avanti… Con l’amore e i legami familiari abbiamo un’ottima base. Un amore a 360 gradi: per il marito, per la moglie, per i figli, per il territorio.

Raccontare la propria terra è più facile o più difficile?

Sicuramente più difficile perché ti senti sempre un po’ più esposto, ti metti ancora di più a nudo rispetto a qualcosa che non si lega alla tua terra. Tocchi delle corde personali, quindi vai a raccontare anche te stesso perché quei luoghi sono una parte di te.

Ritieni che oggi gli artisti vadano dove li porta il cuore oppure il mercato?

Certamente se avessi guardato al mercato una roba del genere non sarebbe mai uscita… In tanti mi avevano sconsigliato dicendomi che ormai l’emergenza era finita… Le scelte “fuori mercato” si possono fare, in quel caso però si fanno investimenti personali. Com’è stato il mio all’inizio. Dipende però da chi sei. Se sei già un nome puoi anche permetterti di scegliere, altrimenti fare delle scelte artistiche non è così semplice… La produzione attuale va molto su quello che paga, che rende, quindi parliamo dei soliti film da botteghino, con i soliti attori noti, eccetera, eccetera.

Come stai vivendo questo lungo periodo di pandemia?

Fortunatamente dopo il lockdown sono riuscito a lavorare parecchio, sto facendo una docuserie Rai, lavoro molto con Focus, il canale di Mediaset che trasmette documentari. Quando sono senza impegni, invece, trascorro tutto il mio tempo a casa anche per evitare il rischio contagio. Cerco di dare una mano in famiglia anche perché solitamente faccio una vita da migrante… Ovviamente penso e scrivo cercando di trovare nuove idee nuovi progetti.

Come giudichi i provvedimenti adottati dal governo?

Partendo da lontano dico innanzitutto che viviamo in una società che non rispetta la natura… E in taluni casi, purtroppo, rimane vittima di tali comportamenti… Parlo del cambiamento climatico, delle varie pandemie, eccetera. Bisognerebbe tornare a vivere l’amore per il proprio territorio e per i propri cari. Se uno pensa bene a questo, poi non va, ad esempio, a sversare liquami tossici nei fiumi… Un inquinamento che andrà a ricadere sui propri figli. Diciamo che tra l’uomo e la natura ci sono grossi problemi e se non li risolviamo al più presto purtroppo ne pagheremo il conto… Tornando alla pandemia, sicuramente ci siamo mostrati impreparati, ma il lockdown era assolutamente necessario. Anzi, nella prima fase andava anticipato, soprattutto in Lombardia dove tante aziende, diciamolo chiaramente, hanno continuato a lavorare nonostante i divieti e il fatto che non producessero beni essenziali… Regole violate, dunque, in nome di un profitto personale che, di fatto, calpesta la salute collettiva… Ho visto morire colleghi e vicini di casa per colpa del Covid 19, mentre altri amici hanno addirittura pianto più lutti in famiglia. C’è poco da scherzare vestendo i panni dei negazionisti. Altro che un’influenza… Sicuramente andremo incontro a un’altra crisi economica, come accaduto negli anni duemila e i cui effetti sono stati avvertiti qualche anno dopo… Ci sarà, probabilmente, una grossa crisi sociale ma con la buona volontà di tutti ne usciremo.

A tuo avviso l’industria del cinema dovrebbe trasformarsi adeguandosi a questo nuovo tempo oppure resistere aspettando giorni migliori?

L’industria del cinema si sta già trasformando, soprattutto per quello che riguarda la distribuzione e in parte anche la produzione. Il cinema, a mio avviso, deve assolutamente sopravvivere in quanto permette una visione completamente diversa da quello che il singolo fruisce in casa davanti alla tv o a un computer. Secondo me le grosse produzioni in questo momento dovrebbero servirsi di piccole realtà indipendenti. Progetti nuovi, di persone anche poco famose o addirittura sconosciute, in modo da generare, dalla crisi, un’opportunità e un miglioramento.

Per piccole produzioni cosa intendi?

In giro ce ne sono tante. Lo scorso luglio, ad esempio, ho fatto il direttore della fotografia in Giulia, di Ciro De Caro, realizzato con pochi soldi e tanta voglia da parte di tutti.

Cosa ci racconterà prossimamente la tua cinepresa?

Al momento sto lavorando a più cose. Mi piacerebbe, però, raccontare la vita di uno sportivo. Soprattutto la sua umanità e quindi quella di tutti noi…

L'ECO di San Gabriele
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