Il dolore può avere molte forme, ma di due soli tipi: quello che si sperimenta in caso di accidenti o malattie (fisico) e quello che ci coglie quando siamo separati da una persona cara (morale).
Dopo un tempo di prosperità e di pace, siamo passati per la pandemia e ora ci troviamo in un tempo in cui ad oriente le guerre producono dolore innocente in tanti civili, anche bambini. E questo ci ha ricordato che la condizione dell’uomo non è immune dal dolore. Anzi, spesso ne è segnata…
Tuttavia, se per chi muore la sofferenza è finita, per chi resta – spesso – il dolore è come un gorgo che trascina sempre più a fondo, e si fa fatica a trovare parole che possano confortare o anche solo lenire la sofferenza che deriva da una separazione definitiva, alla quale quasi mai si è preparati.
Così, quando Gabriele viene a sapere che il cugino Pietro Possenti ha perduto la moglie e la figlia appena nata, ha uno slancio verso di lui e gli scrive una lettera accorata. È il 1° novembre 1856, Gabriele dell’Addolorata ha vestito da poco il sacro abito, non è ancora studente teologo e vive il tempo del noviziato, quello in cui ci si prepara a vivere i voti e più intensa è la meditazione.
A Pietro, Gabriele manifesta tutta la sua partecipazione al dolore che prova. Poi, però, prontamente lo invita a guardare a Dio con fiducia: la fede ci insegna che dobbiamo rimetterci alla volontà del Signore – e motiva – il quale permette tutto a nostro bene.
Gabriele è consapevole che in certi momenti il nostro cuore fatica ad accettare anche la più consolante delle parole della fede, e lo manifesta: l’umanità si risente, ma non per questo dobbiamo abbandonarci ad essa…
Il santo anche se giovane, ha una vita già fortemente segnata dal dolore. In ogni sua forma: le malattie alla gola gli hanno fatto conoscere cosa significhi il dolore fisico; la prematura perdita di mamma Agnese, di alcuni fratelli, e soprattutto della sorella Maria Luisa (che della mamma aveva preso il posto), gli hanno insegnato il dolore di un affetto mancato troppo presto.
Così, se qualcuno tra i lettori ha perduto una persona cara, se da una parte potrebbe fare fatica ad accettare una simile riflessione, dall’altra può essere certo che Gabriele dell’Addolorata può a buon diritto parlare del dolore e di come affrontarlo. Lui, cui non ne è stato risparmiato nessuno!
Ebbene, cosa raccomanda Gabriele dell’Addolorata all’amato cugino in questo delicato momento della sua vita? Gabriele scrive: Vorremmo far passare tali circostanze senza ricavarne un salutifero e vantaggioso profitto? Ah no… Rivolgiamoci al Signore e facciamogliene un valoroso sacrificio.
E probabilmente, nel momento più acuto della tubercolosi (la malattia polmonare che lo ha condotto alla morte e che, ferendo i polmoni, faceva sì che la tosse fosse accompagnata da perdite di sangue), è stato proprio questo suo farne un valoroso sacrificio, a permettergli di affrontare la sofferenza con quella serenità e dignità che lasciava tutti edificati.
Di fronte al dolore, quindi, Gabriele è sostenuto dalla certezza che Dio opera tutto per il nostro bene e dai frutti di questo suo virtuoso sacrificare. Qualcuno potrà dire che lui era santo, intendendo con questo che avesse un qualche scudo divino per non sentire il dolore come gli altri. La verità è che Gabriele si è fatto santo per la vita vissuta e per il modo in cui ne ha affrontato le prove, e che se ne seguiremo gli esempi godremo della stessa gioia. Quella per cui, concludendo la lettera al cugino Pietro, chiede di rassicurare tutta la famiglia che la sua è una vita di contenti. Dice: Oh, che dolce cosa servire Dio!