Tokyo sympathy tower

di Rie Qudan,
traduzione di Gala Maria Follaco,
ed. L’ippocampo, pp. 144, euro 18,00

La Tokyo Simpathy Tower è una prigione unica: un cilindro slanciato alle spalle di uno stadio nel cuore della città, accessibile da tutte le direzioni. Dentro, grandi spazi comuni e vetrate luminose sostituiscono il buio e le mura delle celle tradizionali; in cima, quasi sospesa tra le nuvole, si trova la maestosa Sky Library. Per viverci non serve necessariamente essere degli homines miserabiles (così vengono chiamati i detenuti): basta avere la cittadinanza giapponese ed essere “ritenuti degni di compassione”. Da qui il nome controverso che dà il titolo al romanzo e che affolla i pensieri di Makina Sara, architetta dell’edificio.

Quale sfumatura porta la scelta dell’inglese per un edificio così unico? Che cosa significa oggi “compassione”? E che cosa “criminale”? In che modo le parole che usiamo modellano la realtà? Sono gli interrogativi che Makina rivolge all’AI – personaggio e co-autrice (in minima parte) del romanzo – ricevendo però risposte sterili e umanamente insoddisfacenti. Nei limiti di poco più di un centinaio di pagine affiorano i grandi temi del domani, esposti con una schiettezza a tratti disturbante. In uno snodo centrale del libro si afferma che “gli errori degli architetti possono infestare il futuro”: un monito che l’autrice affida a chi, ogni giorno, costruisce la propria vita accanto a quella degli altri.

L'ECO di San Gabriele
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