È ormai più lunga dell’ultimo conflitto mondiale (settembre 1939-maggio 1945) la serie di guerre che si è sviluppata sulla scia di quella che, in un primo tempo, fu chiamata “primavera araba”. Dura ormai da cinque anni esatti, da quel 17 dicembre 2010 in cui si dette fuoco il giovane commerciante tunisino Mohamed Bouazizi perseguitato dalla polizia del dittatore Zine Ben Ali, da 25 anni al potere a Tunisi. La rivolta si diffuse in tutto il paese, valicò i confini e contaminò l’Egitto, dove da trent’anni governava con mano di ferro Hosni Mubarak, e la Libia, sotto il quarantennale regime autoritario di Muhammar Gheddafi. E quest’ultimo è stato il solo a rimetterci la pelle, giustiziato nel febbraio del 2012 dai ribelli. A differenza appunto di Ben Ali, di Mubarak, del presidente dello Yemen Abdullah Saleh, cacciati via nei giorni “della rabbia” e “della collera”, e del solo tuttora in sella, il siriano Bashar al-Assad.
La deriva delle rivoluzioni è sotto gli occhi di tutti. Divisioni e guerra civile in Libia. Dittatura militare in Egitto. Altra guerra civile nello Yemen, dove si sposa con il conflitto religioso fra sunniti e sciiti. E il dramma giornaliero che si consuma in Siria, una nazione allo sbando, svuotata dei suoi abitanti (alcuni milioni vivono nei campi profughi o cercano di raggiungere l’Occidente), con un bilancio di 250mila vittime, almeno sino a questo momento, un panorama di immense distruzioni materiali, una prospettiva di difficile ripresa economica nel futuro. E la responsabilità di aver partorito il califfato, un terrorismo alla conquista del potere camuffato da ideologia religiosa. Senza contare i fermenti di rivolta, in alcuni casi duramente repressi, che percorrono le nazioni di tutto il mondo islamico e ai quali si annette una minore importanza rispetto ai cataclismi politici maggiori verificatisi altrove.
Sta cambiando l’intero panorama della politica internazionale che gravita attorno al Mediterraneo. Sono tornati come attori significativi la Russia e l’Iran, il cui peso e la cui presenza non è più possibile sottovalutare. Saltano tutti gli schemi ai quali eravamo abituati: l’influenza degli Stati Uniti, prevalente per lunghi decenni, si è molto indebolita, anche per macroscopici errori come le invasioni in Afghanistan e in Iraq; si va lentamente spegnendo quello che poteva essere l’irraggiamento dell’Europa, scopertasi divisa, incapace di far fronte a una sfida storica come le grandi immigrazioni e tentata dalla miopia nazionalista, con il rifiuto dell’accoglienza. E, sia pure sotterraneamente, fa presa in parecchi settori del mondo arabo (compresi regimi economicamente fiorenti, quali i regni e gli emirati petroliferi) la proposta del califfato, come ritorno di potenza dell’islamismo, tenuto dall’occidente in una posizione subordinata per almeno quattro secoli.
Le rivoluzioni popolari arabe non portano quei risultati che ingenuamente ci si attendeva, con la formazione cioè di strutture analoghe a quelle delle democrazie evolute, perché si tratta di esiti che non appartengono alla cultura politica di quelle società. Sono altri i motivi che hanno mosso la gente alla rivolta, ancorati a una situazione che affonda nella sostanziale povertà delle masse in regimi nei quali è diffusa la corruzione, l’arbitrio del potere sostituisce la legge, mentre è norma la violazione dei diritti umani. Con un uso cinico della religione, alla quale si rinvia per ogni tipo di violenza, dalla condizione delle donne (che arriva sino alle mutilazioni genitali) alla negazione della libertà di coscienza, dall’uso politico della pena di morte alla giustificazione “per volontà di Dio” del divario fra ricchi e poveri.
Bisogna coltivare la consapevolezza che la conquista di un modo proprio per la gestione della società civile, che non deve necessariamente essere la fotocopia delle istituzioni vigenti in nazioni oggi definite “democratiche”, comporterà un lungo, paziente esercizio politico e comunitario probabilmente non esente da passaggi dolorosi. E a questo proposito va salutato almeno un risultato, quello tunisino. Il paese dal quale è partita la “rivoluzione dei gelsomini” è il solo che si sta salvando dal generale naufragio arabo, pur attraverso vicissitudini e tensioni civili (oppositori liberali assassinati, tentativo di imporre la legge coranica, attentati di terroristi islamici con stragi) che, per un momento, hanno fatto temere un altro esito fallimentare.
È stata approvata una costituzione che riposa su alcuni fondamenti, dall’appartenenza identitaria all’islam al rispetto dei princìpi cardine dell’ordinamento democratico. Per la prima volta in una società araba è sancita l’uguaglianza (tema che suscita ancora accese controversie) fra uomo e donna, mentre a base della repubblica sono poste la separazione dei poteri, la sovranità popolare, la tutela dei diritti umani e di una serie di libertà, per esempio di coscienza e di informazione. Questo “unicum” nell’universo islamico è stato riconosciuto nel suo valore esemplare dall’attribuzione del premio Nobel per la pace, che suona un po’ come uno schiaffo internazionale al califfato (che ha tentato di scalfire con violenza e morte chi è uscito dagli schemi del fondamentalismo). Ora tocca alle società occidentali organizzare un minimo di tutela e di aiuto alla fragile economia tunisina se si vuole tenere vivo un simbolo di paese libero e autonomo nelle sue scelte, da proporre eventualmente al futuro di altre nazioni se, come ci si augura, si concluderà prima o poi l’apocalisse del Medioriente.