La tesi di fondo di Jonathan Haidt, docente americano di Psicologia sociale e autore di un libro che sta facendo tanto discutere, è che smartphone e tablet, e una connessione continua a internet, sono stati proposti troppo presto ai nostri figli, quando erano ancora dei bambini…
Ci sono i ragazzi che per una challenge (sfida) mettono dei fili invisibili sulle strade per provocare incidenti alle auto che passano, filmarli e poi postarli in rete. Ci sono persone che per fare un selfie in punti particolarmente panoramici rischiano di precipitare nel dirupo. Su TikTok, il social dei giovanissimi, riunite sotto all’hashtag #mentalhealth, si trovano tantissime persone che “recensiscono” gli psicofarmaci che stanno prendendo: gli effetti collaterali, i sintomi d’astinenza e tutti gli altri problemi che chi non ha mai avuto a che fare con uno psichiatra non immagina nemmeno. Il protagonista di questi episodi è lo smartphone (o il tablet). Sempre a portata di mano. Con un click puoi fare qualunque cosa, anche utile: parlare (sempre meno), scrivere, fare un acquisto, giocare, controllare il conto in banca, ascoltare musica, organizzare un viaggio, scattare foto e girare video. Tutto tempo restituito, almeno in teoria, alla vita reale. In teoria. Ma come lo usiamo noi questo strumento?
Il problema riguarda tutti ma è diventato più acuto tra bambini e adolescenti. Negli Stati Uniti c’è un libro che sta facendo molto discutere. S’intitola La generazione ansiosa – Come i social hanno rovinato i nostri figli e in Italia è stato pubblicato a settembre da Rizzoli. L’autore è Jonathan Haidt, docente di Psicologia sociale alla Stern School of Business della New York University e firma delll’Atlantic. La tesi di fondo del libro è questa: se tra gli adolescenti si è verificata quella che lui definisce “un’epidemia di malattia mentale”, che sta colpendo soprattutto le femmine (le persone nate a partire dalla metà degli anni novanta, in posti diversi del mondo, soffrono di ansia, depressione, autolesionismo e disturbi correlati più di qualsiasi altra generazione di cui esistano dati confrontabili), non è tanto (o meglio, non solo) perché questi adolescenti vivono attaccati ai social e agli smartphone adesso, ma perché questi dispositivi, e una connessione continua a internet, gli sono stati proposti troppo presto, quando erano ancora dei bambini.
I dati che snocciola Haidt sono abbastanza inquietanti: la depressione tra i ragazzi americani in questo periodo è cresciuta del 161% per i maschi e del 145% per le femmine, l’ansia è incrementata del 139% e il tasso di suicidi del 91% tra i maschi e del 167% tra le femmine.
Quello di Haidt è un grido d’allarme, forse estremo, ma condiviso da numerosi psicoterapeuti ed educatori. Per l’autore americano, alla base di questi problemi c’è un passaggio quasi antropologico che ha interessato l’infanzia che, con l’arrivo dei social, è passata dalla “generazione del gioco a quella del telefono”. Ecco perché, argomenta, “la prima generazione di americani che ha attraversato la pubertà con in mano lo smartphone (e internet) è diventata sempre più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e suicidari”.
L’autore individua alcune date spartiacque: il 2007, l’anno dell’arrivo dell’iPhone, e il 2009, quando debuttano i like (i “mi piace” che si mettono sui social per dimostrare gradimento per il post di un utente). Prima di quel momento i social servivano per spiare le vite di amici ed ex compagni di classe e chattare gratis con gli amici. L’avvento dei like ha completamente stravolto le dinamiche dei social media: non si è più parlato di amici, ma di follower. Il colpo di grazia, soprattutto per le ragazze, è arrivato con la letale aggiunta della telecamera frontale, nel 2010, e poi l’acquisizione di Instagram da parte di Facebook, nel 2012, che ha fatto esplodere la popolarità del “social delle immagini”. “La Generazione Z (i nati dal 1995 al 2010, ndr) – riassume Haidt – è diventata la prima generazione nella storia ad attraversare la pubertà con un portale in tasca che li richiama, allontanandoli dalle persone fisicamente vicine, in un universo alternativo che crea dipendenza, instabile ed eccitante. Avere successo in quell’universo richiede loro di dedicare perennemente una grande parte della loro coscienza a gestire quello che diventa il loro brand online”. La presenza perenne dello smartphone, insomma, impedisce loro di fare esperienza della realtà e di acquisire le capacità che saranno necessarie per affrontare la vita quando diventeranno adulti.
L’altro problema denunciato da Haidt riguarda il ruolo dei genitori. Il paradosso è questo: nella vita reale, i bambini sono iper protetti e assillati dai genitori che li controllano in maniera quasi maniacale senza responsabilizzarli. Mentre nel mondo virtuale, su internet, gli stessi genitori sono completamente assenti. Hanno dato in mano ai loro figli quella che è praticamente una droga pesante e gli hanno detto “mi raccomando, non esagerare”. Droga di cui, tra l’altro, magari, sono dipendenti anche loro. La difficoltà è che anche per gli adulti è difficile stare dietro, monitorare e controllare un mondo come quello dei social media e delle tecnologie digitali in rapida trasformazione e sempre foriero di opportunità e novità, anche pericolose.
Haidt individua quattro conseguenze di questo fenomeno dell’abuso degli smartphone: la riduzione dei momenti di socializzazione (passati da 122 minuti al giorno nel 2012 ai 77 del 2019), il peggioramento della quantità e della qualità del sonno, la frammentazione dell’attenzione con “molti adolescenti che ricevono centinaia di notifiche al giorno, vale a dire che raramente hanno cinque o dieci minuti per pensare senza interruzioni” e il quarto, il più pericoloso, la dipendenza che si manifesta con ansia, irritabilità, insonnia. Il libro di Haidt si conclude con una serie di consigli a genitori e insegnanti come vietare l’uso dello smartphone prima dei 14 anni, vietare di aprire account sui social media prima dei 16 anni, vietare del tutto lo smartphone a scuola (anche durante le pause), concedere ai propri figli più indipendenza e libertà di giocare senza supervisione e affidare loro maggiori responsabilità.
Le tesi di Haidt hanno suscitato un dibattito molto vivace con alcuni studiosi che le hanno criticate. In un articolo pubblicato sulla rivista Nature, Candice L. Odgers, docente di psicologia all’università della California, ha detto che non ci sono prove scientifiche sufficienti a sostegno delle tesi di Haidt e le reputa anzi nocive, perché distolgono da altre possibili cause di ansia e depressione. Odgers ha anche evidenziato la differenza tra causa e correlazione: chi ci assicura – si è chiesto – che siano gli smartphone e i social a causare ansia e depressione, e non che chi soffre di ansia e depressione tenda ad usare di più gli smartphone e i social? E poi: Generazione Z e Generazione Alfa (i nati dopo il 2010) hanno tanti motivi per essere ansiosi e depressi, dalla crisi climatica all’esposizione alla violenza, dall’epidemia di oppioidi al razzismo. Ma Haidt aveva previsto quest’obiezione e la confuta già nel libro, sottolineando come le minacce esterne abbiano sempre reso i giovani più uniti, grintosi e combattivi, mentre le malattie mentali sono il frutto dell’isolamento individuale, la sensazione di essere soli, senza speranza, inutili. In ogni caso, il libro di Haidt dovrebbe innescare un dibattito a scuola e tra genitori e figli.