PERCHÉ SEMPRE INFELICI
Novembre. Salgo al paese per la consueta visita al cimitero. La parete montana fa da cornice ai cipressi. Avanzo fra le tombe, evitando col piede frammenti di vasi gettati a terra dal vento dei giorni precedenti. Una carrellata di lapidi. Volti di uomini e donne, di bambini e giovani. Fissati dall’obiettivo, in un’espressione che ha qualcosa di universale. Un sorriso, timido o sicuro o invadente, ma sempre pieno di aspettative, come fosse in attesa di conferma, di stima, di affetto.
Ma cos’hanno in comune gli esseri umani che li fa sembrare sfaccettature di un unico prisma? L’ho intuito in un momento ed è stata come una rivelazione. Mi servirò di due aforismi. Primo. Ogni persona (ma diciamo pure: ogni essere vivente, allargando il cerchio a cavalli, cani, alberi, fiori…) è come un grido silenzioso che chiede solo di essere felice. Secondo. Ciascuno vuole sentirsi differente e amato in modo diverso.
Forse non basta una vita per comprenderlo. Probabilmente, lo afferriamo all’apice dell’esistenza, magari solo alla fine. C’è un esperimento che tutti possiamo fare. Entrare in un cimitero. Osservare quei volti mentre scorrono, a centinaia. E chiederci: quale altra saggezza possiamo mettere a fondamento dell’esistenza, se non questa? Quella che ognuno chiede d’essere compreso e amato.
Ma perché la felicità è così difficile da raggiungere? Perché è così facile lasciarsela sfuggire? E, se ne gustiamo un momento – perché essa esiste solo sotto forma di momenti – ci vuole un nulla per perderla: una fila, una persona scortese, un oscuro timore… E, allora, hanno ragione quanti sostengono che siamo programmati per la felicità. Oppure, hanno ragione quelli che ritengono, al contrario, che l’uomo è un animale irrimediabilmente infelice perché aspira all’irraggiungibile… Che nasciamo tutti con un gemello, l’angoscia… Che il nostro cuore è in continuo moto pendolare fra il desiderio di qualcosa, la conquista di essa e il progressivo disinteresse verso la cosa stessa, per delusione o per abitudine…
Oggi, però, sempre più persone propendono per la seconda tesi. Esse affermano: Osservate i volti di quanti ci stanno attorno e capirete che gli uomini sono nati per essere infelici, agitati, sospettosi. In realtà, c’è sempre qualcosa d’insoddisfatto dentro di noi. “L’uomo ha un talento straordinario – commenta il neurologo Rosario Sorrentino – quello di costruire la propria infelicità”. Ma perché questa incapacità di essere felice, da parte dell’uomo? Proporrò, in sequenza, tre risposte. Ciascuno potrà così riconoscersi in quella che meglio riflette la sua visione del mondo.
1. I modelli culturali sbagliati. Per qualcuno, la nostra infelicità deriva dai modelli culturali che abbiamo costruito. Ci hanno insegnato che la felicità è facile da conquistare, che si basa sulle cose anziché sull’interiorità, che consiste nelle emozioni anziché nella serenità. Ci hanno detto che è bello poter fare tutto ciò che ci piace, che bisogna puntare sull’autoaffermazione e non sulla collaborazione, sul rispetto, sulla solidarietà.
2. La paura di soffrire. Siamo infelici perché abbiamo paura di restare disillusi, perciò ci difendiamo, in qualche modo, dalla felicità. È un meccanismo di difesa molto antico, che risale addirittura a Buddha: “Se non vuoi soffrire, non devi desiderare”.
3. La natura divina dell’uomo. Una tesi interessante al problema dell’infelicità, la troviamo nel pensiero di Agostino. L’insoddisfazione congenita che si agita dentro l’uomo è la dimostrazione della sua natura trascendente. Qualcuno ha posto dentro di noi desideri infiniti che nessuno, fuorché Dio, può appagare. Siamo sempre insoddisfatti perché aspiriamo all’assoluto. Luciano Verdone