“La vita – afferma lo psichiatra di fama mondiale che ha compiuto 80 anni – non è fatta né di denaro, né di telefonini, né di muscoli, bensì di mente, personalità e affetto. un esempio di qualè il vero senso dell’uomo ci arriva dal giovane san Gabriele dell’Addolorata…”
Neanche a ottant’anni i suoi capelli hanno deciso di allinearsi in una sorta di chioma più o meno ordinata. Sono sempre in ordine sparso a fare da cornice a una delle menti più apprezzate e fervide del pianeta. Lui è Vittorino Andreoli, psichiatra di fama mondiale. Nato a Verona nel 1940, dopo la laurea in Medicina e Chirurgia all’università di Padova ha continuato la ricerca sperimentale presso l’istituto di Farmacologia dell’università di Milano, dedicandosi interamente all’encefalo. In particolare alla correlazione tra biologia dell’encefalo e comportamento animale e umano. Ha lavorato in Inghilterra a Cambridge al Department of Biochemistry e poi negli Stati Uniti: prima alla Cornell Medical College di New York e successivamente alla Harvard University, con il professor Seymour Kety direttore dei Psychiatric Laboratories e della Cattedra di Biological Psychiatry. È specialista in Psichiatria e in Neurologia e nel 1972 è diventato primario di Psichiatria esercitando la professione nell’ambito delle strutture pubbliche fino al 1999. È stato, inoltre, direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave ed è membro della New York Academy of Sciences.
È solo una sbirciata a un curriculum ponderoso, figlio di una “testa” veramente fuori dal comune. Numerosi le pubblicazioni e gli studi, come anche i libri finiti negli scaffali di mezzo mondo che spaziano dalla medicina alla letteratura, fino alla poesia. L’ultimo mandato in libreria s’intitola 80 anni di follia. E ancora una gran voglia di vivere (Rizzoli, pp.192, euro 17,00). Un vero e proprio inno alla vita, da difendere sempre e comunque, a prescindere dalla propria condizione. Pagine dense che raccontano le tappe di un’esistenza particolarmente “movimentata” e infarcita di scoperte, sfide, rivoluzioni e scommesse. Il tutto mettendo sempre al centro l’uomo con la sua interezza. Un testimone convinto e autorevole all’insegna dell’umanesimo, dell’uomo-persona, cioè un soggetto unico di dignità e un pilastro fondamentale per la società. L’essere umano che beneficia dell’amore folle di Dio che, ahinoi, non sempre però viene ricambiato. Un atteggiamento che lo porta a idolatrare il Dio denaro inviando messaggi fuorvianti alle future generazioni, con il risultato di spegnere in loro la fiducia e la voglia di vivere.
Il professor Andreoli l’ho conosciuto molti anni fa in occasione di un’altra intervista. Ci eravamo dati appuntamento nella sede di una importante casa editrice situata alle porte di Milano. Ricordo che la profondità delle sue argomentazioni e la grande affabilità avevano fatto correre “velocemente” le lancette dell’orologio, tant’è che solo le prime luci della sera mi ricordarono di avere un aereo in partenza… Solo la bravura del tassista, infatti, mi consentì di tornare in Abruzzo… Questa volta, invece, complice la pandemia, la nostra chiacchierata si è svolta telefonicamente, ma il tempo è volato lo stesso…
80 anni di follia e ancora una gran voglia di vivere. Ci spiega il segreto professore?
Il segreto è la vita, la voglia di esistere. Bisognerebbe pensare che la differenza tra esserci e non esserci è abissale e quindi anche alla mia età avvertire di essere in questo mondo, che ci sono relazioni affettive, che c’è la speranza è senza dubbio una grande sensazione. Oc-corre sempre sottolineare la gioia di vivere: prima ancora della qualità, del benessere, della salute, certo importanti, conta esserci.
Se potesse ritornerebbe a essere giovane?
La giovinezza, purtroppo, non è certo, come si cantava una volta, il tempo della serenità, della spensieratezza… Oggi c’è la fatica di crescere, perché il nostro mondo è più ricco ma nello stesso tempo è molto più complesso, più difficile. Quando noi definiamo l’esistenza parliamo sempre del rapporto tra una persona e un luogo, una società, quindi non dipende mai solo dall’individuo ma anche da dove uno si trova. E questa società, nel tempo presente, ha tanti aspetti positivi ma altrettante difficoltà. Ecco perché non penso alla giovinezza, bensì alla mia vecchiaia che rappresenta un capitolo della vita. La paragono all’ultimo capitolo di un libro, quello solitamente più interessante perché ci svela l’intreccio del racconto.
Ma avendone la possibilità cambierebbe qualcosa?
Sicuramente se potessi tornare indietro nel mio lungo percorso cercherei di migliorare alcune cose. L’uomo è imperfetto, è la specie più evoluta, come diceva Darwin, ma evoluta vuol dire che è imperfetta, che può sbagliare. Non ci può essere persona che ritiene di non aver sbagliato mai, vorrebbe dire che non ha vissuto… Una cosa, però, è certa: nella mia vita non ho mai accettato compromessi, ho sempre vissuto secondo le mie convinzioni, secondo le mie meditazioni. E le garantisco che questa è la vera ricchezza.
Qual è invece il vero volto della follia?
La follia è un dolore, una sofferenza della incapacità ad adattarsi a quelle che sono le regole del mondo, le esigenze e anche le imposizioni. Ecco, allora, che ritorna quel concetto fondamentale che per valutare un uomo, bisogna tener presente il luogo in cui vive, le relazioni che ha stabilito. La follia parte dal dolore esistenziale. Esiste il dolore degli arti, di una parte del nostro organismo ma c’è anche il dolore di esistere.
La depressione, infatti, inesorabilmente continua a mietere tante vittime…
La depressione è un disturbo così umano…, il depresso è una persona che ritiene di non saper fare niente e si sente in colpa perché avverte che i figli, la sua famiglia, la gente avrebbero bisogno di lui ma lui non può essere d’aiuto… Si percepisce inadatto al mondo e ai compiti che egli ha. Nei miei ottant’anni descrivo che uno degli sforzi che ho fatto è stato quello di riempire di umanità la follia. Perché, e non bisogna dimenticarlo, l’uomo malato è prima di tutto un uomo… Mentre, nel passato, era considerato una sorta di degenerato, la follia era ritenuta una degenerazione come se l’uomo non si fosse evoluto fino a esprimere le capacità più alte. In tutta la mia vita, invece, ho cercato di mostrare che ci sono sintomi, quindi qualcosa di negativo, ma che ci sono anche delle grandi potenzialità che l’uomo esprime, anche se è folle. Uno dei miei pazienti, ad esempio, uno schizofrenico, amava dipingere e io nel corso degli anni l’ho sostenuto affinché continuasse. Oggi fa parte di quel mondo. Anche la follia, dunque, può arrivare alla creatività.
Il suo lavoro le è stato d’aiuto oppure ha rappresentato una sorta di zavorra nella vita privata?
No, assolutamente, nella vita ho imparato tante cose grazie al mio lavoro. Non saprei vivere senza i miei “matti”…, ovviamente uso questo termine in modo molto affettuoso. Qualche volta, per riconoscere quella che è stata l’importanza di stare a contatto con la sofferenza della mente, scherzando un po’ dico che dopo tanti anni sono mezzo psichiatra e mezzo matto… Su questo argomento, però, vorrei che ai tanti lettori della vostra bella rivista arrivasse un messaggio chiaro, anche perché ci sono tante famiglie in cui c’è un figlio malato, una nonna o un genitore che sta male, che è depresso… Bisogna guardare alla follia con un grande senso di umanità perché, anche in quel caso, s’impara il significato del mistero e dell’uomo.
Cosa le ha fatto capire che la vita è fatta di continuità e non di avventure?
L’uomo ha bisogno di sicurezze e di non essere solo. E anche la trascendenza si lega umanamente a questo bisogno. La sicurezza, dunque, non nasce nell’avventura ma nella ripetitività. Se ieri abbiamo fatto un gesto, ed è andata bene, è segno che lo possiamo ripetere. Basta con questo tempo presente che vuole sempre l’originalità, la novità: mete esclusive per le vacanze, supercar, gioielli particolari, smartphone di ultima generazione… Viva la ripetitività. Io sono vecchio, e non uso giri di parole o definizioni di facciata come terza o quarta età, longevità… No, dico che sono vecchio e sono sposato da 52 anni. Qualche mio collega si meraviglia di questo, anche perché alcuni di loro cambiano compagna ogni anno… Invece a mio avviso è bellissimo contemplare le liturgie anche in una relazione affettiva. Ecco perché faccio l’elogio della continuità, della coerenza e non dell’avventura. Oggi, purtroppo, non esiste più la parola coerenza.
Ma la memoria a volte può essere ingiusta?
Trovo molto interessante quello che mi chiede, però se posso in qualche modo vorrei correggerla… La memoria dell’uomo non è come quella del suo computer dove lei deposita una cosa e la ritrova nello stesso modo. La memoria dell’uomo, infatti, è qualcosa che si modifica. Se oggi sto facendo un’intervista con lei, questo dato mi ricorda quando ne ho fatta un’altra con lei, anni fa. Cioè la lego alle interviste e quindi parliamo di un dato che non è isolato, ma che associo ad altre cose.
Quindi sta dicendo che il passato arricchisce…
Proprio così. È un rivivere ciò che è depositato nella mia mente e che ha subito stimoli diversi, associazioni diverse e quindi il viaggio nella memoria è un percorso nuovo perché si rivelerà una realtà anche con occhi diversi. Se io, ad esempio, ricordo una cosa che mi è successa trent’anni fa e la descrivo, non essendo più come trent’anni fa quello stesso fatto lo vedo diversamente. Che bello sarebbe se i vecchi non stessero sempre davanti a un televisore e facessero, invece, qualche viaggetto dentro la loro memoria, dentro le cose che hanno fatto raccontandole in modo diverso. Ovviamente in quel caso non sarebbero bugie, al massimo bugie-desideri e non, invece, menzogne. La bugia, infatti, è quella innocente di Pinocchio, le menzogne invece sono quelle che cercano di far del male agli altri. La memoria, solitamente è un po’ bugiarda perché si presenta sotto aspetti diversi. Pensando a certi viaggi che ho fatto mi vengono alla mente alcuni particolari che vedo con gli occhi di oggi. La memoria è una grande ricchezza e bisogna insegnarla ai giovani perché spesso dimostrano di non averla. Dimenticano tutto, credono solo nell’attimo presente.
Qual è dunque il segreto per affrontare le grandi domande dell’esistenza?
Vivere l’esperienza esistenziale come un qualcosa di meraviglioso. Oggi anche la scienza dice che non riesce ad arrivare alla verità, alla definizione assoluta. Credo, allora, che la ricerca del significato della vita possa portare tutti a guardare anche in alto, perché cercare di capire è una caratteristica dell’uomo. Bisogna amare la vita e allora ci si accorge di aver fatto sfide che non sono poi avventurose. Amare la vita e non, ad esempio, la macchina, la moto, i simboli fallaci di una società dove il denaro rappresenta la più grande malattia sociale. Sta rovinando la nostra civiltà. La vita è il significato dell’esistenza e non, invece, quanti soldi possiede una persona…
In tutti questi anni cosa le hanno insegnato i “suoi matti”…?
Senza dubbio l’umiltà. Attenzione, non parlo di modestia ma di umiltà. Questo mondo è pieno di modesti, io non voglio essere modesto, sono umile, termine che nasce dalla terra, humus. Da quando mi occupo di queste storie, comprese quelle di criminalità perché anche lì c’è l’uomo, penso sempre che se avessero vissuto in un ambito diverso, magari a contatto con persone in grado di trasmettere più amore, forse non sarebbero così… Non se ne può più, infatti, di questi “padreterni” del corpo e del denaro… Se tutto è denaro, come fa quel ragazzo a non avere un telefonino di ultima generazione? La vita non è fatta né di denaro, né di telefonini, né di muscoli. È fatta invece di mente, di personalità, di affetto.
A proposito di questo, la cronaca recente ci ha mostrato la barbara uccisione di un ragazzo, Willy, a opera di alcuni coetanei. Il giovane è stato picchiato a morte solo perché aveva cercato di evitare una rissa… In che modo, professore, può esserci compatibilità tra normalità e omicidio?
In questa vicenda c’è un personaggio nuovo, il picchiatore… Cioè un’espressione del nostro corpo perché si lega ai muscoli, all’importanza che viene data al corpo. E un corpo forte non è più un corpo guidato dalla mente, in quel caso la mente conta poco perché il corpo è al servizio degli istinti. Questa è un’anomalia della riduzione dell’uomo a corpo, a muscoli, tatuaggi, alla bellezza del muscolo. E quindi c’è di mezzo anche il sesso, perché poi il corpo si lega a quello. Per carità, non condanno affatto le palestre, ci mancherebbe, lo sport fa bene alla mente e quindi è importante che i ragazzi lo pratichino. Altra cosa, però, è l’ossessione per il corpo, la crescita del corpo e non dell’uomo. Nell’episodio a cui fa riferimento, dunque, c’è il gusto del picchiare che vuol dire mostrare il proprio corpo. Noi, purtroppo, stiamo regredendo, stiamo diventando delle macchine.
Ma perché sempre più spesso, e non mi riferisco solo agli omicidi ma anche all’uso di droghe, alcol, eccetera, per tanti giovani la vita sembra abbia un valore effimero?
Perché tutto è un’avventura. La droga, ad esempio, all’inizio è un’avventura, ti fa sentire diverso. Se uno assume la cocaina si sente forte, non ha bisogno di dormire, gli passa persino la fame ed è vittima del delirio di grandezza. In tutto questo, però, c’è un dato importante che va sottolineato. Se un ragazzo non diventa piccolo protagonista nella società, se non gli danno lo spazio per potersi esprimere già nell’apprendere, nella scuola, eccetera, allora diventa eroe del nulla, eroe fuori della società. Molti giovani si sono buttati e si buttano via, però è anche vero che faticano a trovare un posto in questa società dove gustare anche le cose normali che, ad esempio come il lavoro, si ripetono.
Qual è allora la prima cosa che dovrebbe fare la società e quindi il “mondo degli adulti” per evitare che nei giovani si spenga la fiducia?
Togliere il posto egemone del denaro… Questa è una società che t’insegna che se hai il denaro vali, altrimenti non conti niente… E se hai denaro dipendi dalla quantità. In questo modo troviamo dei perfetti ignoranti che sono pieni di soldi e che trattano il sapere e l’onestà come se fossero dei giochetti. È una società che deve smettere di ridursi al denaro e all’economia. Deve invece cominciare a valutare quello che io chiamo l’umanesimo. Non so se ho dei meriti nella mia vita, certamente però ho portato la follia nell’umanesimo. L’umane-simo è fatto di princìpi per vivere onestamente, per vivere nella serenità. E nell’umanesimo, non dimentichiamolo, si deve guardare anche verso l’alto… Questa è la vita e non un mondo che è diviso tra pochi ricchi e tanti che non hanno neanche da mangiare… Ripeto: un giovane che trova difficoltà a diventare un piccolo protagonista è come tentato a intraprendere determinate vie che sono poi quelle dell’autodistruzione e della distruzione dell’altro. E l’episodio a cui lei faceva riferimento racconta questo. Noi non dobbiamo permettere che esista oggi una nuova professione, quella del picchiatore. La società dei muscoli, della bellezza fisica e del denaro. La bellezza è della persona e non del corpo che è fatto anche di mente e storia ed è determinato anche dal senso dell’uomo. E un esempio di qual è il vero senso dell’uomo ci arriva dal giovane san Gabriele dell’Addolorata. Uno che aveva tutto a disposizione ma che ha capito dove risiedeva la vera gioia.
Quanto è difficile, professore, dare una speranza ai disperati? Qual è la strada da seguire?
L’unica via è quella dell’amore, stare vicino a chi ne ha bisogno.
In questa direzione ritiene che la chiusura dei manicomi sia stato un bene?
Sicuramente è stato un bene, ma nello stesso tempo, paradossalmente, è stato anche un male…
Perché?
Successivamente alla chiusura non è stato fatto nulla. Siamo l’unico paese che ha chiuso i manicomi, luoghi disumani perché si pensava che il malato fosse un degenerato. All’epoca, infatti, non c’era nemmeno l’idea del matto che si curava… Dunque si è fatto benissimo a chiuderli, però poi non si è creata alcuna alternativa. Bisognava dar vita a luoghi in cui si potessero curare. Oggi, invece, la durata media per la diagnosi e la cura è di circa 13 giorni… Un tempo esiguo in cui non è possibile fare alcuna diagnosi, tanto meno una cura. Cerchiamo, allora, di accudire i malati rispondendo ai bisogni di oggi.
Come sta vivendo questo periodo di pandemia?
Sicuramente è un’esperienza drammatica. A differenza del passato, quando nel mondo si verificavano delle epidemie, cioè quando uno, due o tre paesi al massimo erano interessati, in questo caso è la totalità a esserne vittima. Lei sa che in tutto questo tempo sono stato volutamente zitto, a differenza di tanti che sono comparsi in tv o sui giornali. Ho usato il silenzio, anziché con le chiacchiere preferisco parlarne con gli affetti… Ho paura e sono preoccupato delle persone a cui voglio bene. E questo sul campo affettivo cambia la vita. E poi le pandemie sono malattie, occorrono medicine in grado di affrontarle. Ad esempio chi ha un problema al cuore mica lo cura con il politico di turno…
Messaggio ricevuto, professore. E grazie per aver interrotto, per L’Eco, il suo silenzio… Le va di chiudere la nostra chiacchierata raccontandoci un aneddoto? Uno tra quelli che ha più a cuore…
Il vescovo di una grande diocesi mi manda un suo sacerdote, facendomi questa premessa: Professore, era una persona bravissima, particolarmente attiva e capace, soprattutto con i giovani. Un giorno, però, mi ha chiesto di dispensarlo da tutti i suoi compiti perché non si sentiva più all’altezza… La prego, faccia qualcosa per aiutarlo… Il sacerdote si presenta nel mio studio accompagnato da un altro religioso. Non appena rimaniamo soli, mi dice: Professore devo chiederle scusa, so che lei è molto bravo, anche il vescovo me lo ha detto, ma con me non c’è niente da fare… E così mi racconta una condizione di grave depressione in cui era caduto. Alla fine, conclude: A questo punto, quindi, non mi sembra neanche giusto venire qui a farle perdere del tempo prezioso in quanto avverto anche nei suoi confronti la mia incapacità. Sono un uomo finito… Io, allora, con grande serenità gli dico di essere disposto a dargli una mano “però se lei non vuole – aggiungo – non sarò certamente io a obbligarla, tanto meno lo farà il suo vescovo… Decida lei, se proprio non si sente vada via tranquillamente, magari potrà rivolgersi ad altre figure…”. Detto questo, mi alzo dalla sedia per accompagnarlo alla porta, ma lui resta seduto. Dentro di me, allora, penso: ti ho fregato… Torno a sedermi e per cinque minuti restiamo in silenzio guardandoci a vicenda. Poi, sempre con tono timoroso, inizia a raccontarmi qualcosa. A quel punto, però, convinto di averlo in pugno, gli dico che per me può bastare così, non deve raccontarmi tutto in quella seduta. “Se vuole seguitare a parlare con me – proseguo – vediamoci un’altra volta, fissiamo un nuovo appuntamento…”. Nel frattempo mi alzo e dopo poco lo fa anche lui. A quel punto, mettendomi in ginocchio, gli dico: “Padre, mi benedica…”. Lui resta impietrito… Gli faccio capire che è sì vittima di un malessere, anche profondo, ma la sua fede però è sana, intatta… Lui, allora, alza la mano tremante come una bandiera al vento e mi benedice, quasi vergognandosi. Mentre compie quel gesto capisco che lo avrei guarito… E così è stato. È tornato a svolgere il suo compito in diocesi con lo stesso atteggiamento e con lo stesso spirito che aveva prima della depressione…