IL NOTO EDITORIALISTA DE LA STAMPA E AUTOREVOLE “VOCE” DI RADIO 24 HA PUBBLICATO UN LIBRO-VERITÀ, UNA NOTTE HO SOGNATO CHE PARLAVI, DOVE RACCONTA CON GRANDE CORAGGIO LA SUA ESPERIENZA DI PADRE DI UN FIGLIO AUTISTICO. NONOSTANTE SIA LA PRIMA CAUSA DI HANDICAP IN ITALIA SI REGISTRA UNA VERGOGNOSA ASSENZA DI PROGETTI E STRUTTURE CHE GARANTISCANO UN FUTURO DIGNITOSO A CHI, INVECE, SPESSO È CONSIDERATO UN “VUOTO A PERDERE”
Ho conosciuto Gianluca Nicoletti una ventina di anni fa, quando capitò dalle mie parti, nell’Abruzzo teramano per un servizio televisivo su fra Nicola Torretta, l’ultimo eremita del Gran Sasso. All’epoca lavorava in Rai, ma negli anni a seguire tutte le performances che lo hanno visto giornalista, scrittore, conduttore radiofonico e televisivo con casacche diverse hanno sempre evidenziato un professionista di grande spessore, assoluto padrone della parola. Una parola sempre connessa a un cervello vivo e pensante, nulla a che vedere con quelli di tanti parolai che affollano oggi la nostra povera Italia. Nel corso della sua importante carriera Gianluca Nicoletti ha ricoperto anche la carica di direttore editoriale di Rai Net oltre a essere stato fondatore e direttore responsabile della testata giornalistica online Rainet news. Nel suo prezioso percorso professionale ci sono anche esperienze come autore teatrale e musicale. Insomma, un personaggio poliedrico e brillante che ha fatto incetta di premi prestigiosi come ad esempio il Premiolino, uno fra i più antichi e importanti premi giornalistici italiani, Prix Italia, Gui-darello e Cuffie d’Oro Lelio Luttazzi nella categoria “One Man One Voice”. Grande esperto e conoscitore della rete globale e delle sue infinite evoluzioni, da giovane Gianluca, in piena sintonia con la sua anima libera e scanzonata, ha voluto regalarsi forti emozioni prendendo il brevetto da paracadutista. Giù da un aereo tra le nuvole facendosi accarezzare dal vento e respirando l’azzurro del cielo. Poi, l’incontro con l’amore, una delle parole chiave della nostra esistenza. Un amore importante e duraturo, quello condiviso con sua moglie Natalia, apprezzata giornalista di un noto quotidiano romano. Da questa unione sono nati due figli, Filippo e Tommy. Quest’ultimo, il secondogenito, è un ragazzo autistico, un disturbo che interessa la funzione cerebrale. In pratica chi ne è affetto mostra una marcata diminuzione dell’integrazione sociale e della comunicazione. Una patologia particolarmente diffusa. I più recenti studi epidemiologici, infatti, rilevano un tasso di incidenza dell’autismo sulle nascite pari a 1 su 100 e annualmente cresce tra il 10 e il 17 per cento. È la prima causa di handicap in Italia e si manifesta quasi sempre entro i primi 3 anni di vita. Chissà se in un momento di maggiore smarrimento Gianluca e Natalia, solo per un attimo, avranno pensato a un destino cinico e baro capace di negare la parola proprio a un figlio di genitori che della parola, invece, ha fatto una ragione di vita. I figli, però, anche se a volte ce ne dimentichiamo, non si scelgono, si accolgono. Rappresentano il dono più alto che mai possiamo ricevere, e soprattutto non siamo noi i suoi signori. Ma questo, Gianluca e Natalia, lo sanno benissimo e allora dinanzi a un evento “imprevisto”, che inevitabilmente sprigiona frustrazioni in serie e cambiamenti di rotta, non si sono fatti trovare spiazzati. I nuovi doveri e le nuove responsabilità non hanno prosciugato la loro energia di coppia. Hanno tenuto dritta la barra della famiglia riuscendo a navigare con ogni sorta di mare. Oggi Tommy ha 15 anni ed è un bellissimo ragazzo riccioluto di quasi 90 chili, con gli occhi dolci e tanta voglia di vivere. Nonostante la disabilità riesce a trasmettere sentimenti ed emozioni. E poco importa se le parole non escono, con mamma e papà parla il linguaggio del cuore. Una storia tutta da raccontare a cui, nonostante l’alto prezzo d’intimità violata, Gianluca con grande coraggio non ha voluto sottrarsi. E così ha mandato in libreria un volume bellissimo dove emozioni, ironia e lucciconi si rincorrono come in una fiaba. Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, pp.192, euro 16,50) è il titolo di questo racconto franco e disincantato che pone l’attenzione su una patologia spesso raffigurata in maniera fantasiosa. Ma soprattutto, ben consapevole del fatto che la comunicazione è alla base di ogni buona idea, l’autore lancia un interessante progetto di vita che apre alla speranza. Oltre a essere editorialista de La Stampa oggi Gianluca è una delle voci più apprezzate di Radio24, dove ogni mattina, tranne il sabato e la domenica, alle 10 conduce il seguitissimo programma Melog, la realtà condivisa.
Ha da poco terminato il suo spazio in diretta quando gli accendo il registratore de L’Eco…
Partiamo dalla presentazione, chi è Gianluca Nicoletti?
Ho fatto il giornalista, negli ultimi decenni mi sono occupato soprattutto di comunicazione. Ho guardato molta televisione e l’ho analizzata finché aveva un senso farlo. Una decina d’anni fa poi, quando l’ho considerata ormai morta, ho cominciato a osservare la rete, di cui già mi occupavo. Il mio interesse era vedere il mondo riflesso attraverso l’universo dei media.
È vero che entrò in Rai quasi per sbaglio producendo falsi curricula e una finta raccomandazione di uno zio arcivescovo mai avuto…?
Vero. La prima volta che feci un colloquio, era il 1983, mi chiesero delle referenze di tipo politico che non avevo. Insieme a vari attestati del mio lavoro svolto in qualche radio privata e in alcuni giornali locali misi dentro, convinto di non essere scelto, anche la falsa raccomandazione di un fantomatico zio arcivescovo…
Inventò anche il nome?
No, quello era vero, se non ricordo male era dell’arcivescovo di Verona… Ero certo che non mi avrebbero preso, quindi decisi di giocare un po’. Il contenuto era troppo ampolloso per essere credibile, mi ricordo che iniziavo la lettera con “Il mio illustre nipote…”.
Invece la presero sul serio…
Nessuno obiettò nulla, mi aspettavo una risposta del tipo “Ci saluti suo zio…”. Probabilmente la raccomandazione fu presa per vera.
Vent’anni di Rai, un primo lussuosissimo contratto fino alla poltrona di direttore. Poi cosa successe?
Entrai in forte contrasto con l’azienda per varie questioni. Andai via quando mi resi conto che avrei dovuto lasciare il posto a qualche altro. Io ero completamente fuori da tutte le liturgie aziendali…
In che modo glielo fecero capire?
Cominciarono ad accusarmi di tutto.
Ad esempio?
Che per colpa mia c’erano link e siti “zozzi” nel portale Rai…
E lei?
Ho capito, dissi, fatemi sapere cosa volete…
Immagino la loro richiesta…
Io non la immaginavo, ne ero certo… Volevano che togliessi il disturbo. Chiesi allora il trattamento di liquidazione e andai via. Dico la verità, fui molto contento di farlo. Quel momento segnò l’inizio di una nuova vita professionale, tornai a fare il giornalista vero. Negli ultimi cinque-sei anni, infatti, mi dissero che non avrei più dovuto produrre pensiero bensì occuparmi dell’aspetto dirigenziale-amministrativo.
In pratica diventare un burocrate dell’informazione…
Esattamente. Facevo grandi riunioni per capire come tagliare i costi, come decidere le strategie di vendita dei siti internet, eccetera. Non era proprio il mio lavoro.
E come è sbarcato a Radio24?
Appena fuori dalla Rai fui assunto da La Stampa. Marcello Sorgi, mio collega al Tg1 e amico, mi volle con lui. Con lui tornai a fare quello che non facevo più da anni.
Cioè?
Girare l’Italia per fare reportage. Qualche tempo dopo Giancarlo Santal-massi divenne direttore di Radio24 e mi propose di riprendere il programma che avevo interrotto in Rai. Avendo abbandonato Rai Net, infatti, avevo lasciato anche tutte le produzioni. Accettai e per qualche anno continuai a occuparmi di televisione. Poi il programma si è evoluto e ho iniziato a occuparmi nuovamente di attualità, di costume, di società, di quesiti vari. Oggi la durata del mio programma si è raddoppiata.
Da grande esperto ante litteram e profondo conoscitore del mondo della rete, come spiega il fenomeno Grillo?
Da anni Grillo stava preparando una risposta di pancia all’esaurimento del mandato che gli italiani avevano fatto alla classe politica che doveva rappresentarli. Ritengo sia un momento di passaggio e non un momento finale. Un momento che da un punto vista lascia qualche perplessità; dall’altro, invece, ha il grosso vantaggio di aver cambiato la scena, sparigliato i giochi. L’impressione è che adesso siano tutti con le spalle al muro e temano l’aria di cambiamento. Il cambiamento, d’altra parte, è sempre un salto nel buio. Non credo che a trionfare sarà l’idea grillinesca, spontaneista, naturalista e new age, ma per lo meno ci sarà un avvicendamento. I nuovi politici, che oggi sembrano tanto goffi e fuori luogo, pian piano capiranno e impareranno… Se l’ambiente non sarà tale da corrompere anche loro, probabilmente avremo un respiro di novità…
Prima di occuparsi di suo figlio, cosa sapeva dell’autismo?
Quello che mediamente sanno le persone comuni. E cioè che gli autistici sono un po’ strani, dei geni matematici, come ad esempio ci ha raccontato il film Rain Man. Credevo fossero dei fenomeni della mente molto strani…
Invece?
L’autismo ha forme molto vaste, anzi sarebbe più corretto parlare di autismi. Ci sono persone che hanno disturbi minimi, come ad esempio potremmo avere io e lei quando ci sentiamo con poca voglia di socializzare e ci piace stare molto tempo con i nostri pensieri, magari fissi su un computer a lavorare. Quelli sono dei barlumi di una natura autistica che abbiamo un po’ tutti. Altri casi, invece, sono molto più pesanti. Persone con grossi problemi di tipo psichico che possono fare male a se stessi e agli altri, possono avere dei comportamenti ossessivi, possono avere una vita molto difficile. In questo aspetto ci sta tutto e ci sta anche mio figlio.
Quando si è accorto che c’era qualcosa che non andava nello sviluppo di suo figlio?
Io e mia moglie ce ne siamo accorti tardi, anche perché in Italia siamo in pieno Medioevo rispetto alla diagnosi precoce dell’autismo. Intorno ai tre anni abbiamo capito che nostro figlio non parlava. Mia madre mi ripeteva che avrebbe iniziato a parlare più tardi per poi non fermarsi più. Proprio come avevo fatto io… Ma non era così. A quel punto abbiamo provato a capirci qualcosa e altri anni sono trascorsi tra prove, analisi e test valutativi.
La certezza che si trattava di autismo quando l’avete avuta?
Nel momento in cui è uscita questa parola definitiva. Oggi con le nuove tecniche se s’individua esattamente la patologia in maniera precoce, ancor prima dell’anno di vita, attraverso l’intervento di sistemi intensivi il ragazzino può essere in grado di parlare entro un paio di anni. Ed è già qualcosa.
Cosa ha impedito, agli occhi di un padre e di una madre, di notare quel tipo di deficit?
Tommy era un ragazzino come tanti, però non parlava. E comunque alla fine, anche se si esprimeva male, lo capivi. Inoltre tutti ci ripetevano che avrebbe parlato. Le nonne degli autistici sono ahimè il più grande limite a una diagnosi precoce… Un bambino che oggi a tre anni non parla a mio avviso ha dei problemi. La nostra è una società che a un anno e mezzo loro già usano i tablet come se fossero biberon…
Appena conosciuta la diagnosi cosa ha pensato?
In quei casi è sempre tutto un po’ sfumato… Siccome è una patologia molto indecisa, speri sempre di essere nella parte alta dello spettro, per intenderci quelli che sono più o meno normali. Poi, però, ti rendi conto che ahimè c’è sempre qualcuno che sta peggio, quindi se alla fine la vedi in positivo sei fortunato. Il mio Tommy è un ragazzo tenerissimo, con cui sto benissimo e comunico molto bene. Certo non posso lasciarlo solo neanche un istante, ma è di grande compagnia e di grande stimolo. Rispetto ad altri ragazzi, che vedo ad esempio sbattere di continuo la testa contro il muro, mi ritengo decisamente fortunato…
Cosa l’ha spinta a mettere tutto nero su bianco accendendo i riflettori sulla sua intimità e quella della sua famiglia?
È stata una cosa molto faticosa e dolorosa, anche se non l’ho mai nascosta. Quando un anno fa mi chiamò l’editor della Mondadori spingendomi a fare un libro su mio figlio, come prima reazione lo presi per scemo… Sono fatti miei, gli risposi. Poi, riflettendoci, ho capito che poteva essere l’unica grande occasione per parlare di questo problema in maniera totalmente laica, senza pregiudizi e quant’altro. Anche perché di questa cosa ho esperienza e quindi posso parlarne senza inventarmi nulla. Non voglio né sostituirmi ai medici, né a chi fa le diagnosi, ma conosco esattamente l’iter di una famiglia che ha una diagnosi di autismo e quali sono i problemi da affrontare quando il ragazzo cresce. Ecco, allora, che ho pensato di mettere in fila tutte queste cose, nero su bianco, in maniera problematica, offrendo anche un’idea di soluzione. E nello stesso tempo dando voce a tante persone che si sbattono quotidianamente da sole dentro casa con il loro problema, senza che nessuno li ascolti.
Il suo, infatti, è un racconto dolceamaro che apre a una speranza concreta…
La speranza falsa è quella che millantano molti ciarlatani e truffatori propinandoti la guarigione. Magari attraverso la canapa indiana oppure con l’intervento di famosi sciamani… L’autistico, allo stato attuale delle cose, autistico rimane… Però può senza dubbio migliorare le sue autonomie. E più vive una vita felice e di relazione più diventa autonomo. Il problema è che dopo l’adolescenza non esistono strutture. Quelli che fino ad allora ti hanno dato una mano ti dicono che ormai è grande e che non hanno altro da offrirgli… In pratica ti dicono che è terminato il tempo della logopedia, dei cubetti colorati, della musicoterapia. Devi pensarci tu e buonanotte…
La sua soluzione, invece, cosa prevede?
Creare dei centri specifici dove questi ragazzi abbiano modo di esprimersi, continuino a seguire il loro percorso di autonomia. Magari in luoghi belli e accoglienti visto che gli autistici hanno un forte senso estetico, si accorgono di tutto. All’autistico non piace essere compresso in qualcosa che assomigli a un ospedale, a un manicomio, a una rimessa dove tenerlo lontano. Ho pensato, quindi, che forse questa città dell’utopia si possa costruire veramente.
Come dovrebbe essere strutturata?
Visto che in tutte le città esiste un’infinità di aree abbandonate da destinare, che gli operatori ci sono e le famiglie comunque si impegnano molto e parte delle loro risorse economiche è indirizzata al figlio piuttosto che a qualcuno che esegue delle terapie inutili, è meglio che organizzino un progetto di vita di questi ragazzi. Il pomeriggio, ad esempio, invece di starsene chiusi in una stanza o magari andare con una badante a fare una passeggiata ai giardinetti, si occupino, con persone specializzate, di far cose che a loro piacciono.
Ad esempio?
Sport, attività espressive, eccetera.
In pratica significherebbe costruire loro un futuro…
Proprio così. Altrimenti cosa gli fai fare? Quando ad esempio non riuscirò più neanche a portarlo a spasso in bicicletta, cosa farà mio figlio? Rimarrà chiuso dentro casa? Chi lo porterà in giro? Bisogne-rebbe allora creare l’equivalente di ciò che, ad esempio, rappresenta per me e per lei la redazione di un giornale. Cioè un luogo dove ogni mattina l’autistico trovi uno scopo di vita. Del tipo: oggi vado in questo posto e faccio giardinaggio, cucino, disegno, lavoro con il computer, costruisco delle cose, faccio sport. Insomma, faccio quello che dà dignità a un essere umano. Loro anche se non parlano hanno una perfetta comprensione di quello che li circonda, stando chiusi dentro è come se si trovassero in una prigione. In pratica vedono il mondo come lo vediamo noi e cose del genere causano loro ansia e sofferenza.
Quanto pregiudizio ha “toccato” in questi anni?
Parecchio, ma sono stato sempre abituato ai pregiudizi umani. Mio figlio è molto bello, all’apparenza sembra un ragazzo un po’ strafottente che non guarda la gente in faccia perché se la tira. E quindi spesso senti qualcuno che ti dice di insegnare l’educazione a tuo figlio solo perché magari, in un autobus, lo lasci tranquillamente seduto mentre dinanzi a lui c’è una signora anziana in piedi…. Vagli a spiegare allora che tuo figlio è autistico e che avendo problemi di equilibrio se non è seduto potrebbe avere una crisi epilettica… Molte volte con un po’ di pazienza queste cose le dici, altre volte, invece, mandi le persone a quel paese e ti tieni il tuo problema… A volte, infatti, fa bene pure al genitore mandare qualcuno a quel paese… Ci si sente più rafforzati nel diritto di vivere una vita.
“Il padre di un autistico – osserva lei nel libro – di solito fugge. Quando non fugge, nel tempo lui e il figlio diventano gemelli inseparabili. Tommy è la mia ombra silenziosa”. Una fotografia dura ma nello stesso tempo bellissima…
È la realtà. Oggi si fa un gran parlare di salvaguardia e unità della famiglia, ma in un caso di disabilità di questo tipo il primo fenomeno è proprio l’esplosione della famiglia… È difficile gestire il rapporto personale, affettivo, la tensione che trasmette un figlio così. Di solito ci si rimbalzano le responsabilità: io lo tengo più di te, io mi spendo di più, la colpa è tua… E via dicendo finché la famiglia non esplode. I primi a scappare sono sempre i mariti perché trovano immediatamente altre soluzioni. E poi c’è un vecchio antico, atavico e detestabile principio per cui l’autismo sarebbe colpa delle madri poco affettive. Non ha nulla di scientifico, ma se bisogna dare a qualcuno la colpa la mamma è quella giusta… È colpa sua perché quando allattava suo figlio non lo guardava in faccia… Conosco tante madri sole con figli autistici da gestire. Per la verità ho incontrato anche diversi padri i quali, quando non fuggono, rappresentano un figura molto importante.
Lei quando parla di gemello inseparabile è perché non può mai perderlo d’occhio nel corso della giornata?
Esattamente, lui può farsi del male in ogni momento. Ad esempio vede una finestra aperta e pensa di andare a farsi un bel volo come Peter Pan… Oppure può infilare le dita in qualunque buco, può tagliarsi. Le faccio un esempio. Mio figlio pesa 87 chili ed è più alto di me di circa 30 centimetri. Spesso, dopo l’adolescenza, anche se sono sotto controllo farmacologico capita che gli autistici abbiano crisi epilettiche. Lui una settimana fa ha avuto una crisi in salotto e mia moglie ha provato a sorreggerlo. Purtroppo non ce l’ha fatta e le è caduto addosso procurandole una distorsione al ginocchio. Ora sta facendo fisioterapia per rimettere in sesto i legamenti… Io stesso non riesco più a muoverlo quando è per terra, in quel caso posso solo mettergli un cuscino sotto e aspettare che passi…
Ma come è possibile che un paese cosiddetto civile si faccia trovare completamente impreparato dinanzi a quella che rappresenta una vera e propria emergenza sociale?
Purtroppo è tutto assurdo, siamo all’età della pietra. Probabilmente non è ancora sedimentata storicamente come invece altre patologie. I genitori dei ragazzi down, ad esempio, si sono organizzati, coesi, strutturati, hanno fatto sentire la loro voce. I genitori degli autistici, invece, sono un po’ autistici anche loro, sono tanti universi separati e ognuno si occupa del suo problema restando chiuso in casa. Quello che manca è un serio coordinamento. E poi stiamo parlando di una malattia non omogenea, di autismi ce ne sono tanti quindi bisognerebbe organizzarli per aree di difficoltà. Secondo me, comunque, l’idea di creare delle aree di felicità dentro le città e non in luoghi isolati, è fattibile. In base ai livelli di difficoltà cominciamo a pensare che tutto quello che i singoli genitori organizzano in casa possono condividerlo con altre due o tre coppie. Se io ad esempio ho un operatore che fa fare yoga a mio figlio, potremmo unirci altri due o tre ragazzi e farlo insieme. In questo modo avremmo anche tre famiglie alleviate, per qualche ora, dell’onere di stare sempre dietro al figlio. Nessuno ci pensa ma anche i genitori hanno bisogno di ricaricarsi, di riprendersi un po’ del loro tempo, altrimenti scoppiano.
Della via farmacologica che ne pensa?
Non voglio sostituirmi ai medici, ci mancherebbe. A mio avviso in certi casi i farmaci servono e se ti affidi a un medico è logico che devi dargli fiducia. Ovviamente non sono quel genitore che chiede al medico di somministrare qualcosa a suo figlio in modo che lo tenga buono per un po’ in un angolo senza dargli fastidio. Fortunatamente ci sono delle linee guida, ben sperimentate, dettate dal ministero della Sanità. In giro, infatti, c’è parecchio selvaggismo. Ci sono persone che praticano strane terapie, si spendono molti soldi senza però risolvere il problema.
Tra lei e sua moglie chi ha subito un maggiore contraccolpo psicologico?
Mia moglie si è occupata di Tommy dai primi anni di vita fino all’adolescenza. È stata ed è un’ottima madre, l’ha seguito in tutto. Poi, però, non ce l’ha fatta più fisicamente, lui è cresciuto parecchio e quando ha qualche irrequietezza lei non riesce a gestirlo. Con me, invece, è molto tranquillo. Diciamo che adesso mi faccio carico dell’onere che per tanto tempo è stato sulle sue spalle consentendomi di dedicarmi al lavoro a tempo pieno.
A proposito del suo lavoro, quanto ha inciso la patologia di Tommy?
Ho dovuto organizzarmi. Grazie a Dio oggi la nostra professione possiamo svolgerla anche senza recarci necessariamente nel luogo di lavoro. Mia moglie lavora il pomeriggio al giornale mentre io lavoro di mattina alla radio. Tutta la mia attività di scrittura la faccio poi nel pomeriggio, nel mio studio dove può anche starci Tommy. Lui non mi dà alcun fastidio. Divido il tempo fra me e lui, tenendolo però sempre d’occhio. Ho imparato a fare più cose assieme.
Com’è la giornata tipo di suo figlio?
La mattina va a scuola, frequenta la terza media, anche se poi è una sorta di parcheggio visto che non fa nulla di specifico. Una volta a casa pranziamo tutti insieme, poi alle tre viene una persona che si occupa di lui. Se posso lo tengo io altrimenti è lui a portarlo alle attività. Un po’ di musica, un po’ di sport e va a cavallo una volta a settimana. La sera, intorno alle 8, torna sotto la mia tutela fino a quando non va a letto. Il sabato e la domenica, invece, li trascorriamo tutti insieme.
Finite le medie dove andrà?
Lo abbiamo iscritto al liceo artistico, è una bella scuola, e poi lui è molto dotato per le attività manuali e artistiche.
Si sente mai in colpa per il tempo sottratto all’altro figlio ?
I primi anni mi sono dedicato tantissimo al mio primogenito, adesso invece mi vede un po’ più assente. Se ne occupa più la madre seguendolo nella gestione degli studi e delle sue attività. Lui si confronta con i tipici problemi dell’adolescenza e con il peso di avere un fratello con cui non è semplice convivere. Devo dire, comunque, che ci aiuta molto, i fratelli degli autistici hanno un grande senso del dovere. Nello stesso tempo, però, hanno anche una grande tristezza e pure loro vanno aiutati.
In che modo?
Tenendo unita la famiglia.
In questi giorni, più di altri, siamo costretti a convivere con l’irritante bla bla di una politica sempre più distante dalle necessità della gente, soprattutto di quella larga fetta di bisognosi. Lei da attento studioso e fustigatore di costumi, quale considerazione ha maturato dopo la disabilità di suo figlio?
Adesso è arrivato il momento in cui li andrò a stanare… Durante la campagna elettorale per l’elezione del nuovo governatore della Lombardia ho ricevuto la lettera del padre di un ragazzo autistico milanese. A nome di un’associazione numerosa di genitori di figli autistici aveva scritto ai cinque candidati presidenti esponendo tutte le problematiche del caso e chiedendo, nel contempo, di conoscere le rispettive posizioni in merito e quali tipi di intervento avrebbero adottato una volta eletti. In base alle loro risposte e ai loro programmi avrebbero poi convogliato i voti, al di là delle varie colorazioni politiche. Bene, non hanno ricevuto alcuna risposta. Su questo assurdo silenzio ho scritto un articolo sul mio blog inviandolo poi a tutti gli uffici stampa. Loro considerano il disabile come un vuoto a perdere, dimenticando che dietro c’è una famiglia. Questa cosa la ricorderò spesso a tanti politici…
Ci racconta della piacevole quanto inaspettata visita di Annalisa Minetti a suo figlio Tommy?
L’avevo conosciuta proprio il giorno in cui era nato Tommy. Mi trovavo a Sanremo, per il dopo Festival, con Chiam-bretti. La sera che proclamarono la vincitrice, Annalisa appunto, ero vicino a lei e guardavo con ammirazione questa bella ragazza non vedente. Dopo tanti anni ci ritrovammo insieme in una trasmissione e lei parlava del suo impegno nei confronti della disabilità. Le dissi, allora, che in un certo senso lei e mio figlio erano legati da un filo sottile, visto che Tommy era nato proprio il giorno in cui lei vinse Sanremo…
È stato quel filo sottile, dunque, a farle suonare il campanello di casa vostra…
Proprio così. Un giorno, con nostra sorpresa, è venuta a farci visita e una volta dentro ha ricevuto l’abbraccio caloroso di mio figlio. Da quel momento abbiamo iniziato a incontarci. Tra l’altro ho saputo solo ora che anche lei ha un fratello autistico di 30 anni e un’altra sorella con il suo stesso problema agli occhi. La sua, dunque, è un’esperienza ancora più articolata. Il padre ha aperto una fattoria sociale vicino Milano dove il figlio autistico vive insieme ad altri ragazzi. Annalisa ha un suo modulo di lavoro per gli autistici, è una grande atleta e una gran bella persona. Inoltre è dotata di grande ironia e tanta umanità. Sono molto contento di lavorare con lei, spero tanto che questo rapporto possa crescere e maturare.
Lei che importanza dà al tempo che passa?
Quello non è più il mio, i capelli si imbiancano e gli anni fuggono… Però il fatto di gestire un ragazzo come Tommy, con tutte quelle responsabilità, inevitabilmente ti fa sentire più giovane di quello che sei anagraficamente.
Se potesse solo per un attimo comunicare con suo figlio, cosa gli direbbe?
Vorrei fargli capire cosa significa aver scritto un libro su di lui. Tommy, infatti, osserva il libro, lo prende in mano ma non crede a quello che gli dico…, non sa che una parte del paese sta parlando di lui. Il libro sta andando molto bene e lui sta diventando un personaggio. Ma non si renderà mai conto di questo…