LO SMART WORKING DICE SÌ…

Al di la della polemica politica e del necessario miglioramento delle regole, il bilancio in questi due anni di pandemia è sicuramente positivo. Le aziende più soddisfatte sono quelle di grandi dimensioni, nel settore del commercio

Dall’emergenza al futuro del lavoro. Lo smart working, detto anche “lavoro agile”, è la grande eredità della Dall’emergenza al futuro del lavoro. Lo smart working, detto anche “lavoro agile”, è la grande eredità della pandemia su cui si discute da mesi e che sarà sempre più centrale per i prossimi anni. Perché riguarda l’organizzazione della famiglia, sempre di più la cenerentola del nostro Paese. Perché può liberare tempo e spazio per l’educazione dei figli. Perché può essere – soprattutto per le mamme lavoratrici con bimbi piccoli – un aiuto importante per conciliare famiglia e lavoro.

Che ai lavoratori piaccia, è un dato di fatto. Lo dicono diverse ricerche e sondaggi. Nel 2020, mentre il Pil crollava sotto i colpi della pandemia, la soddisfazione dei lavoratori sorprendentemente aumentava. Una delle cause è proprio il lavoro agile da casa. Certo, non è tutto oro quel che luccica. Occorrono regole, paletti, buonsenso e anche flessibilità sia da parte dei lavoratori che delle aziende.

L’ultima polemica del ministro della Pubblica amministrazione Renato Bru-netta (“vaccinatevi e venite in ufficio, non fate finta di lavorare”) non giova, anche per i toni usati. Gli ha risposto il collega di governo, il ministro del Lavoro, Andrea Orlando: “Lo smart working può aiutare, è una grande occasione che può essere colta anche dal Mezzogiorno, soprattutto per le aree interne. Un po’ di demonizzazione fatta va rivista, lo dicono le grandi aziende: è un modo per ripensare le nostre città, il rapporto tra lavoro e tempo libero, tra periferie e centro”.

La provincia italiana si sta spopolando e questo è un problema drammatico in un Paese a natalità sottozero. Mentre nelle grandi città – Milano in testa – i prezzi delle case sono esplosi, con le famiglie che fuggono e dove la metà degli abitanti sono single.

Nel capoluogo lombardo, si dice, accade prima ciò che poi avvienenel resto d’Italia.

Finora lo smart working è stato applicato sull’onda dell’emergenza con i picchi in autunno e inverno che hanno consigliato a molte aziende di lasciare i lavoratori a casa. Ma un bilancio di questi due anni di pandemia è doveroso per guardare al futuro. È l’obiettivo dell’indagine condotta da Ipsos per Laboratorio Futuro dell’istituto Toniolo, l’ente fondatore dell’università Cattolica del Sacro Cuore. Ne è nato un report Il futuro della città. Smart working nelle imprese milanesi al tempo del Covid-19 a cura di Cecilia Leccardi (Acli) e Ivana Pais, del dipartimento di Sociologia dell’università Cattolica.

La pandemia insegna che non ha senso distinguere tra normalità ed emergenza”

La valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart working nel periodo di massima emergenza nel 2020 è pari a 6,64 in scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente). Le aziende più soddisfatte sono quelle di grandi dimensioni, nel settore del commercio. Rispetto alla valutazione delle opportunità offerte dal lavoro in smart, quella che raccoglie punteggi più elevati tra le aziende riguarda i benefici complessivi per i lavoratori (6,83), seguita da produttività del lavoro (6,69), bilanciamento vita lavorativa-vita privata (6,61) e contenimento costi aziendali (6,58).

Lo smart working ha ottenuto la piena promozione da parte di quasi 1 lavoratore su 2 (il 46% dei rispondenti ha selezionato un valore compreso tra 8-10 sulla scala di preferenza) e la sufficienza da 1 lavoratore su 3 (30,8%). Giudizio positivo espresso soprattutto dai lavoratori più giovani (media 7,3), da coloro che risiedono in provincia (media 7,1), seppur vi abbiano fatto meno ricorso rispetto ai colleghi residenti in città, da coloro che sono in possesso di un titolo di studio superiore (media 7,2) e dai lavoratori impiegati in grandi aziende (media 7,1). Tra gli aspetti più penalizzati dal lavoro da remoto vi sono i rapporti interpersonali. In particolar modo, i lavoratori più giovani hanno dichiarato di privilegiare rapporti personali con i propri superiori, dai quali ricercano direttamente indicazioni direttive sul lavoro da svolgere ed eventuali correttivi.

Alessandro Rosina, saggista e docente di Demografia e Statistica sociale alla Cattolica di Milano, ha fotografato bene le sfide che la pandemia, a cominciare dallo smart working, ci ha messo di fronte: “Sono finite le epoche, quantomeno come le abbiamo intese sinora – spiega – per entrare in processi di mutamento che in parte si autoalimentano e in parte cerchiamo di governare e dirigere. È un equilibrio dinamico. Come in bicicletta: ci troviamo in mezzo a due ruote, con quella dietro (il passato) che fa girare quella davanti (il futuro). Se non vogliamo cadere non possiamo fermarci, ma possiamo dare direzione al movimento. Diventa quindi sempre più importante avere chiaro dove si vuole andare, orientandosi e anticipando il percorso, ma facendo anche in modo che il manubrio sia continuamente tenuto ben saldo e regolato”.

Per Rosina la “stessa pandemia non è un accidente da superare per raggiungere una nuova normalità sulla quale costruire, nel modo migliore, un nuovo equilibrio statico da conservare il più a lungo nel resto del secolo. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare dalla sfida che ci pone è che non ha più grande utilità distinguere tra normalità ed emergenza”.

Le donne ancora penalizzate

Uno degli esempi più scottanti è il tema della conciliazione famiglia-lavoro. Tra coloro che nell’indagine hanno affermato di preferire lo smart working quale strumento utile in tal senso, spiccano i profili professionali altamente qualificati (media 7,1), punteggio al di sopra della media anche per i giovani di età compresa tra 18-39 anni (media 6,8), i lavoratori di età intermedia (media 6,9) e chi è in possesso di un titolo di studio pari o superiore alla laurea (6,8). Al contrario, tra i più penalizzati ci sono le donne (media 6,5), che smentiscono così la parziale inefficacia dello smart working quale strumento di conciliazione tra vita lavorativa e impegni privati, per come è stato pensato in origine dal legislatore.

La motivazione di un tale posizionamento femminile rispetto ai benefici apportati dal lavoro da remoto alla conciliazione vita-lavoro può risiedere in una distribuzione degli impegni domestici e familiari ancora troppo sbilanciati a carico delle lavoratrici che, pure se impegnate in smart working, faticano a dividersi tra lavoro e gestione della famiglia. Il lavoro agile, che pure è nato proprio per rispondere a esigenze di conciliazione espresse più volte dalle donne, nella formula forzata ed emergenziale degli scorsi mesi ha penalizzato proprio le lavoratrici, su cui ricadono ancora i carichi di cura. Nel progettare soluzioni stabili per il post-pandemia questi elementi devono essere presi in adeguata considerazione.

Con lo smart working – sottolinea Rosina – il dove e il quando si lavora non si spostano altrove rispetto al luogo fisico dell’azienda e agli orari predefiniti, ma vanno a configurarsi e aggiornarsi continuamente attorno alla persona, adattandosi alla situazione migliore in funzione dei risultati e delle condizioni di contesto (ambientale, sociale e familiare)”.

Anche nel dibattito su questo tema è emersa una tendenza (preoccupante perché sempre più dominante) all’individualismo, a considerare una parte (la propria, di solito) e non il tutto.

L’errore – avverte l’esperto – è considerare lo smart working un ripiego da adottare in risposta alle condizioni poste dalla pandemia. Se ragioniamo in questo secondo modo gestiamo processi nuovi e condizioni nuove con schemi superati e quindi inadeguati. Non c’è quindi un ‘dopo’ da attendere per ripartire. C’è un presente che ci impegna continuamente a capire cosa del passato rimettere in discussione e cosa favorire delle dinamiche in atto per dare la migliore direzione possibile al cambiamento. Serve quindi anche una visione sistemica che metta assieme la prospettiva della persona, quella dell’azienda in cui lavora, quella di chi gestisce luoghi, servizi e mobilità delle città”.

L'ECO di San Gabriele
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