I. J. Singer – Gli Adelphi – pp.276, euro 19,00
È l’autunno del 1926 quando Israel Joshua Singer, su invito del direttore del “Forverts” − quotidiano yiddish di New York −, si reca in Unione Sovietica per un reportage che lo impegnerà diversi mesi. “Queste immagini e impressioni sono state scritte di getto, sul momento, come accade nei viaggi” dirà, non senza understatement, a commento del suo lavoro, che invece costituisce una testimonianza eccezionale, per molti versi unica. Perché Singer, che aveva osservato a fondo il paese dei soviet già nel pieno della tempesta rivoluzionaria, non solo ci mostra ora uno scenario drasticamente mutato, ma coglie in nuce, con occhio penetrante, quelli che saranno i tratti peculiari del regime staliniano: la burocrazia imperante, la pervasività dell’apparato poliziesco, gli ideali comunisti sempre più di facciata, i rigurgiti antisemiti. Percorrendo le campagne bielorusse e ucraine punteggiate di fattorie collettive e colonie ebraiche, visitando le principali città del paese – Mosca, “grande, straordinaria e bellissima”; Kiev, che “non riesce ad accettare il nuovo ruolo di città di provincia”; Odessa, “cortigiana esuberante” divenuta “profondamente osservante e devotamente socialista” –, immergendoci in una prodigiosa polifonia di testimonianze, Singer ci restituisce un quadro vivido e composito, pieno di chiaroscuri, della nascente società sovietica. E porta così alla luce le feroci contraddizioni che proliferano sotto lo sguardo vigile e ubiquo delle nuove icone laiche del “santo Vladimir”.