La croce è l’ultimo segno, la conferma definitiva che Gesù è il Figlio di Dio. È il concetto dominante nel racconto della Passione secondo l’evangelista Giovanni. Egli non riporta molti miracoli ma solo alcuni, che chiama appunto segni perché alludono alla divinità dell’autore. L’acqua in vino a Cana, la guarigione del figlio del funzionario reale, l’infermo in attesa da trentotto anni alla piscina di Betzaetà, la moltiplicazione dei pani col connesso cammino sulle acque, il cieco nato e la risurrezione di Lazzaro. L’altra parte del suo vangelo, prima della Passione, è composta da discorsi in cui Gesù spiega i segni e affronta le obiezione degli avversari sulla sua identità.
Ma nessun segno è chiaro come la Passione. Qui la verità è additata con parole, gesti e simbolismi. Nel Getsemani si presenta come il Sono Io che sbatte a terra gli avversari. Nell’interrogatorio dell’autorità religiosa rimanda il sommo sacerdote alla pubblica divulgazione della sua immagine. Dinanzi all’autorità romana ribadisce l’Io Sono della sua divinità e prova a catechizzare il procuratore pagano. Quando Pilato lo mostra al popolo nell’apparente azzeramento della dignità umana, rivela la pienezza dell’Uomo. Ecco l’Uomo assunto dal Verbo per rendere possibile esprimere in termini umani l’amore di Dio. “Ecco l’Uomo” culmina poi in Ecco il vostro Re, offerta da prendere o lasciare.
Sulla croce la rivelazione presenta gli stessi contenuti ma esposti su palcoscenico universale, piuttosto che nell’apparato di un tribunale. Gesù è nelle stesse condizioni: sfigurato come uomo a significare la scarna nudità umana rivelatrice di Dio, innalzato perché tutti lo possano vedere e capire. Pilato, invece di commentare a parole, l’ha fatto scrivere in tutte le lingue correnti. Nella stretta della morte, il Crocifisso dichiara di aver sete che l’amore di Dio dilaghi sull’umanità, con l’effusione dello Spirito. Quando questo avviene, la dichiarazione che tutto è compiuto si attua nel fluire silenzioso dell’ultimo segno dell’amore dal cuore squarciato.
La potenza narrativa e teologica di Giovanni sa trasformare la croce da cupo strumento di morte a segno di straripamento d’amore. Non si può non avvertire la misteriosa atmosfera di trionfo che pervade il suo racconto della Passione. Egli descrive tutti i contenuti della tragedia come gli altri Evangelisti: arresto, processo, condanna, flagellazione e strapazzi, inchiodamento e morte. Eppure non si ha la sensazione del disastro. Gesù ne ha sempre parlato come dell’ora della sua gloria, della manifestazione dell’amore, del ritorno alla casa dove Dio abita nell’amore. Neppure per un istante egli tradisce l’atteggiamento dello sconfitto.
Come segno supremo dell’amore di Dio, il Crocifisso è anche segno della supremazia dell’amore sul male, che pur sembra vincente. Il vero processato non è Gesù ma il peccato, che infetta la responsabilità dell’agire umano. La passione è la fase finale del conflitto, che scatta col tradimento di Giuda, fa crollare la fedeltà di Pietro, coagula l’opposizione dei giudei, strumentalizza la debolezza di Pilato. Ma fuori del palcoscenico Satana è il tramatore occulto che spinge l’opposizione alla vittoria.
Il culmine del potere delle tenebre – cioè della menzogna, dell’incredulità, della morte – coincide con il culmine del messaggio cristiano, che è il morire di Gesù per amore. Due culmini si incontrano, uno dei quali deve scomparire: il massimo della cattiveria contro il massimo dell’amore. La morte di Gesù è il trionfo del potere di Dio che è l’amore.
È anche un giudizio inappellabile sul potere del male. È sconfitto nel momento in cui sta vincendo. Non ha il potere di distruggere l’amore, perché quanto più lo opprime tanto più lo fa emergere, quanto più gli si avventa contro per eliminarlo tanto più gli dà occasione di amare.
Giudizio di sconfitta e di condanna contro satana capofila di tutte le forze del male da lui schierate. Con tutto il loro scatenarsi contro Gesù l’hanno condotto dove voleva arrivare: dare la vita rivelando e donando all’umanità l’amore di Dio.
La croce è davvero l’ultima parola, più che le sette parole. È il Verbo del Verbo detto in pienezza. Inutile cercare altri segni di Dio.