L’osservatorio sullo Smart Working della scuola di management del Politecnico di Milano ha calcolato che dando la possibilità di lavorare da casa uno-due giorni la settimana, la produttività aumenta del 20 per cento, in quanto il lavoratore è più motivato e meno distratto. Un vantaggio per il dipendente e per l’azienda che in questo modo può permettersi locali più piccoli, affitti e spese per luce e riscaldamento inferiori
Lavoro intelligente, detta all’inglese: smart (intelligente) work (lavoro); oppure telelavoro: in parole povere, la possibilità di lavorare da casa. Un sogno coltivato da eserciti di dipendenti desiderosi di coniugare esigenze familiari ed economiche. Basta pensare al risparmio di tempo e denaro per raggiungere il posto di lavoro. Non solo: un sogno che cominciano a coltivare anche le aziende, perché hanno scoperto che non solo aumenta la produttività, ma si possono tagliare molte spese legate all’organizzazione. Da noi è stato calcolato che già lo svolgono oltre centomila persone.
Ovviamente, non è possibile attuarlo in quei settori dove la presenza umana è essenziale (sarebbe impensabile un cameriere che vi serve uno spaghetto con le vongole attraverso il computer, un muratore che realizza una casa stando seduto in salotto, e via dicendo). Diversi milioni di persone, dipendenti nel settore pubblico o privato, svolgono la propria attività stando alla scrivania: per loro le tecnologie consentono di diversificare, in molti casi, il modo di lavorare.
Nell’ultimo anno vi è stata un’accelerazione del fenomeno, grazie anche ad alcuni provvedimenti contenuti nel famoso jobs act e nella legge di stabilità, nella quale sono previsti sgravi per le aziende e vantaggi fiscali anche per i lavoratori. L’osservatorio sullo smart working della scuola di management del Politecnico di Milano ha calcolato che dando la possibilità di lavorare da casa uno-due giorni la settimana, la produttività aumenta del 20 per cento, in quanto il lavoratore è più motivato e meno distratto. Un vantaggio per il dipendente, certo, ma anche per l’azienda che in questo modo può permettersi locali più piccoli, affitti e spese per luce e riscaldamento inferiori.
Le prime ad attuare lo smart work sono state da noi grandi multinazionali dei settori informatico e telecomunicazioni come Microsoft (800), Vodafone (3.500) e Fastweb (1.200): 5.500 dipendenti che un giorno la settimana restano a casa a lavorare.
Un modello seguito anche da alcune banche, tra cui Intesa SanPaolo, con 3.000 dipendenti, e American Express (990 impegnati due volte a settimana tra le mura domestiche), e Unicredit (1.800 per un giorno a settimana). C’è poi Finmeccanica, che lo prevede per 30 mila lavoratori (le modalità sono ancora da definire), mentre Federmeccanica lo ha inserito nella piattaforma per il rinnovo del contratto di lavoro.
L’Osservatorio Politecnico milanese ha condotto una ricerca su 230 fra dirigenti e quadri appartenenti a 211 aziende di dimensioni medio-grandi, dalla quale è risultato che solo l’8% delle aziende ha avviato un vero piano di smart working. Una percentuale bassa se si tiene conto che in Italia sono poche le aziende con queste dimensioni, dato che oltre il 90% delle imprese ha meno di 15 dipendenti. Infatti, la stessa ricerca evidenzia come lo smart work sia diffuso in prevalenza tra le grandi aziende con più di 500 addetti, appartenenti in maggioranza ai settori alimentare, Ict, telecomunicazioni e manifatturiero. Però, in prospettiva i segnali sono positivi: nei prossimi due anni la percentuale delle aziende che faranno smart working salirà al 19% e si ridurrà il numero di organizzazioni senza alcuna iniziativa (dal 33 al 18%). Le principali motivazioni che stanno spingendo le aziende a orientarsi verso questi modelli di lavoro sono legate al benessere delle persone: il miglioramento dell’equilibrio tra famiglia e lavoro (71%) e della produttività (56%), oppure l’incremento della motivazione (53%) e del benessere organizzativo (45%). Metà delle imprese del campione ha già introdotto una qualche forma di flessibilità sugli orari (elastico, flessibile).
Ma è molto meno diffusa la flessibilità sul luogo di lavoro: il 45% delle aziende applica la mobilità tra le diverse sedi e il 37% il telelavoro; nella stragrande maggioranza dei casi una soluzione limitata ad alcuni profili professionali o introdotta per soddisfare esigenze di singoli dipendenti. Solo il 15% ha previsto postazioni di lavoro non assegnate.
“Se cambiano le modalità di lavoro delle persone, anche l’ufficio deve evolversi per supportare i lavoratori – sostiene Mariano Corso, animatore dell’osservatorio sullo smart work del Politecnico di Milano -. Progettare lo smart office non vuol dire solo ridurre il numero delle postazioni per aumentarne il livello di utilizzo, ma ripensare il significato degli spazi di lavoro e la logica con cui vanno concepiti: non più ambienti unici e indifferenziati per tutte le attività, ma un ufficio in cui il lavoratore trova risposte a esigenze diverse”. Lentissimamente, qualche passo lo comincia a muovere anche la pubblica amministrazione, come nel caso del Comune di Torino, dove vi sono attualmente 20 smartworkers, un numero destinato a raddoppiarsi secondo il programma dell’ente. Eppoi, sempre nel settore pubblico, c’è la Provincia autonoma di Trento che è stata premiata per il progetto TelePAT il cui obiettivo è duplice: da una parte, contenere e razionalizzare la spesa pubblica; dall’altra, conciliare tempi di lavoro e di vita dei dipendenti attraverso il telelavoro. In questo caso sono state studiate due modalità: il telelavoro strutturato a domicilio e quello in “tele centri” presso locali dell’amministrazione.
Ma – è l’osservazione che può nascere spontanea – chi controlla il lavoratore? Beh, i risultati, innanzitutto. Eppoi, il computer lascia tracce dell’attività. Per dire: non lo si può accendere e poi andarsene a spasso, a fare la spesa o tornare a letto a dormire perché tutto è rintracciabile sul pc, e i furbetti potrebbero restare a casa per sempre. Senza smart work.