Nessun rimpianto per l’epoca delle ideologie, ci mancherebbe altro. Chi potrebbe avere nostalgia delle dispute barricadere tra i Peppone e i don Camillo paesani quando, per farsi dispetto, in campagna elettorale si scioglievano a distesa le campane durante i comizi, oppure si inscenavano gazzarre a suon di fischi e schiamazzi per rendere incomprensibili le parole degli oratori di turno? Si poteva andare anche oltre questi dispettucci quando il mondo era diviso a metà: bianchi e rossi. Allora, quando la miseria la faceva ancora da padrone, si poteva assistere anche al condizionamento elettorale con la distribuzione di pacchi-dono o di una sola spaiata scarpa (l’altra la si sarebbe ottenuta a urne chiuse solo se la vittoria avesse arriso allo pseudo-filantropo).
È ovvio che si tratta di banalizzazioni, di stereotipati esempi che ci hanno consegnato la cinematografia e una certa letteratura giornalistica. Le conseguenze delle nette contrapposizioni avevano ben altre riverberi sull’economia e sul sociale. Una cosa, però, andrebbe recuperata di quel non troppo lontano passato: il rispetto dell’avversario. Un rispetto morale che trovava la sua più immediata applicazione nella conservazione delle opere pubbliche realizzate dallo schieramento opposto nella gestione amministrativa. Insomma, le opere pubbliche, i servizi di pubblica utilità e gli ammodernamenti amministrativi non avevano etichette ideologiche. Si integravano e si sovrapponevano con altre opere pubbliche, altri servizi e altri ammodernamenti amministrativi. Una morale che ha permesso alle nostre città e ai nostri paesi di crescere e di svilupparsi verso la modernità. In qualche caso caoticamente, senza programmazione alcuna, ma nella logica del rispetto del lavoro degli altri. Le battaglie andavano fatte nelle sedi opportune: nei consigli comunali o nelle assemblee di quartiere, ma poi l’opera si realizzava e a nessuno veniva in mente, dopo qualche anno, di distruggerla perché in contrasto con le “visioni ideologiche” o di partito.
Oggi che si è decretata la fine delle novecentesche ideologie, invece, il furore iconoclastico si è improvvisamente scatenato. In tutto l’Abruzzo, in lungo e in largo, si assiste a una sorta di infinita guerra sui piani del traffico, sulle zone pedonali e sul degrado delle opere pubbliche. A nessuno sembra importare più di tanto che mandare all’aria un intero sistema di traffico cittadino significa vanificare soldi pubblici per centinaia di migliaia di euro. Senza contare, ovviamente, i disagi provocati ai cittadini che non hanno nemmeno il tempo di abituarsi ai sensi unici che qualcuno, come nel gioco delle tre carte, cambia ripetutamente durante la notte. E che dire dei soldi pubblici spesi per pedonalizzare intere aree dei centri urbani che, a ogni cambiar di vento, vengono riaperte al traffico e si procede con la pedonalizzazione di altre aree che a loro volta verranno…
Una volta erano le ideologie a dettare le logiche di schieramento. Oggi in Abruzzo lo schema di riferimento sembra diventato l’adesione a questa o quella visione del traffico cittadino surrettiziamente collegata, di volta in volta, agli interessi dei commercianti o a quelli dei consumatori. Nessun peana per il bel tempo andato, ma qui si rischia veramente di diventare nostalgici.