IL POSTO PUBBLICO NON ATTRAE PIÙ?
Sono sempre meno coloro che partecipano ai concorsi della Pubblica amministrazione e sempre meno giovani decidono di accettare il lavoro una volta superate tutte le prove. I tanti bandi del Pnrr prevedono solo assunzioni a tempo determinato e gli stipendi italiani sono tra i più bassi dell’Ue
Nel film Quo vado Checco Zalone impersonava il prototipo dell’italiano medio che, ottenuto il posto fisso, meglio se in un ente pubblico, non lo mollava per nessuna ragione al mondo. Una filosofia che ha caratterizzato la storia dell’Italia Repubblicana. Posto fisso come sinonimo di garanzia di una vita tranquilla, da poter pianificare fino a dopo la pensione. Beh, quei tempi sono cambiati, almeno a giudicare dal fenomeno che interessa i concorsi pubblici, quelli per i quali una volta ci si spaccava in mille pur di trovare la raccomandazione giusta per vincerli e aggiudicarsi il tanto sospirato “posto fisso pubblico” (Poste, Ferrovie, ministeri, Regioni, Comuni, Enti, eccetera). Fino a qualche tempo fa un esercito di aspiranti si ammassava per conquistare uno dei posti messi a bando; oggi sono le amministrazioni, a cominciare da Regioni e Comuni, a lottare per trovare quelle persone. Spesso senza successo. Il Formez (l’associazione della presidenza del Consiglio dei ministri che gestisce parte dei concorsi pubblici) ha calcolato che negli ultimi anni è rimasto scoperto in media il 16,5 per cento dei posti, con una punta del 19,9 nel 2021, anno di forte ripresa delle selezioni della Pubblica amministrazione dopo lo stallo della pandemia. Cosa accade? Il posto pubblico ha perso attrattività? La risposta non è semplice: un primo elemento è che, a differenza di una volta, quel posto non è necessariamente fisso, anzi lo è sempre di meno, e non solo perché i tanti bandi del Pnrr prevedono solo assunzioni a tempo determinato. Il secondo elemento è rappresentato dagli stipendi bassi e dalla impossibilità di vivere decentemente nelle aree più sviluppate, e care, del Paese. Nei concorsi banditi tra il gennaio 2021 e il 30 giugno 2022 i contratti a tempo indeterminato sono stati meno della metà. Perciò, non c’è da stupirsi se oltre un terzo dei vincitori del concorso “Mef 500” – con cui il Tesoro voleva selezionare laureati per la gestione del Pnrr – abbia optato per il concorso “Unico funzionari”, che garantiva invece un contratto a tempo indeterminato. D’altra parte la valanga di concorsi banditi negli ultimi due anni lascia ai più preparati ampia scelta. Il 41 per cento degli aspiranti si candida a più concorsi, ed è stato calcolato che quasi 50 mila candidati hanno potuto scegliere tra 5-9 concorsi; addirittura, 1.381 persone hanno partecipato a oltre 15 selezioni. Si tratta di “pluricandidati” che spesso diventano plurivincitori e optano per il posto migliore. La scelta avviene anche a priori: se tra il 2019 e il 2020 c’erano in media 207 candidati per ogni posto a concorso, tra il 2021 e il 2022 erano diventati 40, a causa della moltiplicazione dei bandi. Guardando solo a quelli che hanno interessato il Formez, tra il 2010 e il 2015 la media è stata meno di tre l’anno, tra il 2016 e il 2019 si è arrivati a sei, nel 2021 il balzo a 105. Mentre i concorsi aumentano, i giovani diminuiscono: i nati negli anni sessanta che stanno per andare in pensione sono un milione mentre i nati nel 1990 sono 550 mila. Manca circa mezzo milione di personale.
Oltre ai concorsi, aumenta anche il numero dei profili ricercati, perché la Pubblica amministrazione non intende solo sostituire chi va in pensione, ma cerca di arricchirsi di competenze tecniche. Non più solo giuristi, ma pure tanti ingegneri e informatici, figure che in Italia mancano e che sono difficili da reclutare anche nel settore privato, disposto a pagarle più della Pubblica amministrazione. I laureati del gruppo giuridico costituiscono il 40,9% dei partecipanti ai concorsi, quelli del gruppo scientifico lo 0,8%, gli informatici lo 0,2%. Ne deriva che se il numero dei posti con profilo giuridico scoperti sono molto bassi, per i tecnici superano il 70 per cento. Ciò accade perché non ci sono assunzioni di prospettiva: quelle che propongono sono con contratti a termine legati al Pnrr. Se a un ingegnere, un architetto o a un progettista viene proposto di lavorare in un Comune solo fino al 2026 (quando scadrà il Pnrr), quel laureato cercherà un altro posto. Perché legarsi a un settore senza futuro? Più in generale, lavorare per lo Stato non è attraente: paghe più basse del privato e per fare carriera bisogna superare i concorsi o stare appresso a qualche politico. Problema di stipendio: il 61 per cento dei vincitori di concorso risiede al Sud e non sempre è disposto a trasferirsi al Nord, considerato anche il costo della vita più elevato. Basti pensare che lo stipendio base mensile di un insegnante di scuola superiore è di 1.300 euro netti, che sale e può superare i 1.800 euro a fine carriera. Con queste cifre, in città del nord ci si pagano l’affitto, le bollette e un pieno di benzina, mentre al sud bastano anche per mettere qualcosa tra i denti (e magari si abita con i genitori o in case comprate da questi per i figli). Perciò, in questo caso – come in altri – una quota consistente dei vincitori ha rinunciato, a meno che non gli fosse stata indicata una sede al Sud.
Stipendi bassi, costo della vita alle stelle, una situazione certamente molto diversa rispetto a quella di qualche decennio passato, quando con lo stipendio pubblico ci si comprava l’auto, la casa (anche la seconda), si andava in vacanza con tutta la famiglia… Altri tempi, bei tempi quando il potere di acquisto era superiore. Per questo sono sempre meno coloro che partecipano ai concorsi della Pubblica amministrazione e sempre meno giovani decidono di accettare il lavoro una volta superate tutte le prove. La soluzione sarebbe, quindi, di aumentare gli stipendi: quelli italiani sono tra i più bassi dell’Ue. Sono bassi in termini assoluti e sono addirittura in calo negli ultimi 30 anni. In più preoccupano i tanti contratti atipici e le disuguaglianze crescenti: gli stipendi così bassi dipendono dai tanti contratti a tempo determinato, ma anche dai lavori part-time. Inoltre, mancano meccanismi del recupero strutturale legato all’inflazione. Per far crescere i salari, sostiene Michele Raitano, professore ordinario di Politica economica all’università Sapienza di Roma, occorre aumentare la produttività, ma questo non è avvenuto finora perché “sono stati introdotti incentivi per contenere il costo del lavoro, ma non sulla produttività e lo sviluppo tecnologico. Invece bisognerebbe puntare su salari più alti perché i salari bassi e l’inflazione possono portare a una minore domanda e a una conseguente recessione”.
L’Italia è l’unico Paese europeo in cui, a partire dal 1990, lo stipendio medio dei lavoratori è diminuito (analisi dalla fondazione indipendente Openpolis basata su dati Ocse). In questo periodo da noi il salario medio annuale è sceso del 2,9 per cento mentre è aumentato ovunque. Se paragoniamo la variazione degli stipendi italiani con Paesi aventi economie più simili alla nostra, ne usciamo con le ossa rotte: in Germania e in Francia, ad esempio, i salari medi sono stati incrementati rispettivamente del 33,7 e del 31,1 per cento nonostante fossero già elevati in partenza. Anche la Spagna ha registrato un aumento, seppure più modesto (6,2%). Come si vede, il professore ha ragione da vendere.