Mentre facevo il presepe nei giorni che precedono il Natale mi sono chiesto se non fossi l’ultimo rappresentante di una vecchia e ormai defunta tradizione, l’ultimo giapponese legato a una consuetudine del passato. Mettevo la statuina di san Giuseppe e accanto quella della Madonna, gli angeli sulla grotta che svolazzavano esultanti, i pastori con l’agnello sulle spalle, e mi domandavo se questa usanza secolare – tramandata senza interruzione da san Francesco in poi – avrebbe retto ancora o se si sarebbe lentamente dissolta nel calderone di un’arida modernità. Rimarrà qualcosa, ci rimarrà qualcosa delle vecchie tradizioni? Dobbiamo buttarle al macero, appannarle, dimenticarle? Molti di noi – me compreso – hanno guardato con ironia certe antiche consuetudini paesane, nate nel mondo contadino, ma attenti a distinguere ciò che apparteneva alla fede e ciò che apparteneva al folclore: santi generosi di miracoli, fra leggenda e realtà, portati in processione fra tamburi, trombe e grancasse. Mi sembrava – e sembrava a tanti di noi – un residuo di un cattolicesimo teatrale, più attento alla scena che alle verità evangeliche. Ma oggi coi tempi cambiati e nel dilagare di una mentalità futuristica mi piace gridare: viva le tradizioni, salviamo le tradizioni.
L’inversione di marcia ci viene proprio dall’America dove i nostri immigrati della terza e quarta generazione stanno riscoprendo la vita dei propri paesi d’origine, delle loro vecchie parrocchie, delle leggende di un tempo scomparso. La prima generazione – la generazione della fame – era troppo presa dalla propria sopravvivenza per occuparsi del passato che per loro era fatto di privazioni e di miseria. La seconda cercò di rafforzare le conquiste economiche, ma la terza e soprattutto la quarta, libere dall’assillo del dollaro hanno cercato un aggancio con le proprie radici, una specie di “ricerca del tempo perduto”. Non solo rivisitando ricette di nonne e bisnonne e di una cucina defunta ma anche una ricerca di devozioni locali, di cerimonie religiose dimenticate, e sia pure accompagnate con trombe, tromboni e processioni. E la cosa che sorprende è che sono stati proprio i giovani a sentire la necessità di un aggancio alle proprie radici.
In un mondo in veloce trasformazione, di rapidissimi mutamenti, occorre ancorare l’avvenire al passato. Questo non significa rifiutare il progresso ma solamente salvare il passato.
Anche la scuola ha pagato il suo prezzo di questa ricerca ossessiva del nuovo, non perché il nuovo significhi progresso ma solamente perché il nuovo appare a molti più originale, una sorta di rivoluzione, il rigetto dell’antico per inseguire presunte novità. Tant’è vero che molti studenti – penso a mio nipote – conoscono Fenoglio ma ignorano Manzoni o Tolstoj o Tomasi di Lampedusa.
Anche in molte case il raccordo con le proprie radici è un modo per salvare l’identità della famiglia. Non per un atto di orgoglio ma per mettere in luce le eredità di vecchie generazioni, la vita di lontani antenati. Cosa sono le cerimonie della corte inglese, il gentiluomo che precede la regina roteando una mazza dorata, il rigido cerimoniale che affonda nei secoli se non la testimonianza che il vecchio è un segno di storia? E cosa sono i corazzieri a cavallo per l’investitura del presidente della Repubblica se non il simbolo di qualcosa che vorrebbe sfidare il tempo?
Come diceva Carlo Levi, “Il futuro ha un cuore antico”.