Non chiedere mai. Non chiedere mai perché potresti avere disillusioni e sorprese. La ragazza che si occupa della mia schiena e mi applica elettrodi e piastre, è gentilissima. Piccola, con un viso di adolescente, uno sguardo stupefatto, le daresti al massimo diciott’anni. E invece ne ha ventotto ed è felice quando glielo dico. Mentre armeggia con creme e massaggi mi racconta qualcosa della sua vita, ma sono lampi di conversazione, frammenti di vita che provo a ordinare come in un puzzle esistenziale. Ha una bambina di cinque e faccio il conto di quando dev’essersi sposata, certamente giovanissima. Da queste schegge di dialogo – nell’ora di fisioterapia- capisco che la figlia dev’essere figlia di un padre scomparso dall’orizzonte. Separata? Divorziata? Forse già vedova? Resto stupito perché mi pare impossibile che così giovane abbia già bruciato tutte le tappe sentimentali, nozze, separazione o divorzio, nuova unione, nuovo compagno. Così mi sembra almeno di capire, e non chiedo niente.
Casi rari? Mi è capitato con un’altra ragazza, un’infermiera sui trentacinque, che io immaginavo regolarmente accasata. E invece ho scoperto che ha già consumato un divorzio, si è di nuovo accompagnata e il padre vero del figlio viene ogni settimana a prendere il ragazzo e lo porta con sé a mangiare in qualche ristorante. Ho imparato a non chiedere perché il panorama familiare è diventato sempre più articolato, qualche volta intricato. Se potessi mi piacerebbe sapere il perché di tanti vagabondaggi amorosi, e ogni ragazza mi potrebbe raccontare la propria storia sentimentale, forse monotona, ma alla fine dovrei sintetizzare così: tutta colpa il disaccordo. Perché le ragazze in cui mi sono imbattuto non mi paiono divoratrici di uomini, o almeno non ne hanno l’aria, non hanno il viso di avventuriere o di squilibrate. Sono tranquille donne di una piccola borghesia che vivono nel nostro tempo, respirandone gli umori e i veleni.
È un panorama ampio ma così ripetitivo nelle sue cause e nelle sue soluzioni che non offre sbocchi originali. Non sono un moralista e cerco solo di capire da questi svagati colloqui come si è dipanata una storia personale, uguale a quella di tante donne, itinerari faticosi, anche umanamente comprensibili ma l’uno fotocopia dell’altro, così che potrebbero essere sovrapposti senza danno per la vicenda.
Eppure, malgrado tutto, non sono pessimista e non condivido certo moralistico pessimismo di chi blatera che il mondo va male, il diluvio ci sommerge, viviamo in un’epoca ingrata, i vecchi valori sono tramontati, che triste futuro ci attende…
No, a mio modesto parere è un po’ come col Coronavirus. Può falciare migliaia di uomini e donne, la pandemia può dilagare fino a coprire mezzo mondo, ma poi il virus scompare. Deve scomparire.
Qualcuno potrebbe chiedermi: ma dov’è l’ottimismo? È appunto nella consapevolezza che si tratta di una malattia, anche contagiosa, di una febbre malarica che invade l’organismo ma che prima o poi finisce. Come tutte le mode, purtroppo dopo devastazioni e sofferenze e solitudini.
Siamo passati velocemente dai matrimoni tradizionali alla famiglia allargata in cinquant’anni, in un tempo così breve che l’organismo non ha avuto nemmeno il tempo di sviluppare gli anticorpi. Il processo è stato così rapido, impensabile, impetuoso che tutto è stato travolto da una specie di dolorosa eutanasia. Ma anche i fiumi che strappano gli argini è destino che prima o poi rifluiscano nel loro letto. Non si possono annullare i “corsi e ricorsi” della storia. Per quanto grave sia il problema c’è solo bisogno di tempo perché l’ordine naturale faccia risentire la sua voce. Come diceva De Filippo “ ha da passà ‘a nuttata”.