Studiare a Milano o a Roma costa un patrimonio e non basta neanche avere un lavoro, più o meno stabile, perché gli stipendi sono troppo bassi per il carovita delle città. Cresce anche la disaffezione verso la politica e il voto.
Ilaria Lamera, studentessa bergamasca di Ingegneria ambientale al Politecnico di Milano, una mattina di maggio si è piazzata con una tenda da campeggio di fronte all’università per protestare contro il caro affitti a Milano.
“Da anni a questa parte i costi degli affitti milanesi sono fuori portata – ha scritto su Instagram – vivere qui significa arrivare a spendere 600 euro, spese escluse, per una stanza singola”. La protesta si è allargata, è diventata virale, ha coinvolto, oltre a quelli milanesi, gli universitari di Roma, Napoli, Torino.
È un segno del protagonismo giovanile di questi tempi che utilizza i social, dove avviene il passaparola, è spesso slegato da partiti e movimenti e mobilita i ragazzi su questioni che per le generazioni dei loro genitori, i Boomers, erano quasi un dato di fatto, una certezza. Chi aveva un lavoro poteva permettersi una casa, di proprietà o anche in affitto, di fare le vacanze almeno una volta all’anno, di mettere su famiglia. Oggi non è più così. Studiare a Milano o a Roma costa un patrimonio e senza una (solida) famiglia alle spalle, per i ragazzi è quasi impossibile farcela da soli. Ma la questione nuova è che oggi non basta neanche avere un lavoro più o meno stabile perché gli stipendi sono troppo bassi per il carovita delle città. Se in passato il lavoro era garanzia di una vita dignitosa e normale, oggi è venuta meno anche questa certezza.
“Non spetta a me portare soluzioni sui tavoli delle Istituzioni – ha detto Ilaria – chi dei politici è venuto qui a parlarmi mi ha promesso che si metterà in moto per porre rimedi al problema. Di possibilità ce ne sono, per esempio, i fondi del Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) potrebbero essere impiegati nel pubblico invece che nel privato; oppure investire in nuovi studentati a prezzi più accessibili. Io vorrei anche l’imposizione di un tetto massimo sugli affitti, ma mi rendo conto che questo sarebbe difficile”.
Poi la ragazza ha raccontato, in dettaglio, la sua storia: “La situazione qui a Milano è impraticabile. Sono andata a visitare un numero indeterminato di case e per tutte chiedevano per una singola dai 700 euro in su, senza le spese. Per le doppie il prezzo era più basso, ma in condizioni invivibili: due persone stipate in camerette piccolissime o sporche. Non era fattibile e quindi dall’inizio dell’anno ho dovuto fare la pendolare. Poi, una sera ho pensato che avrei voluto avere una tenda per non essere costretta ancora una volta a tornare a casa tardi e mi è venuta l’idea di questa protesta. Sono nelle mie stesse condizioni diversi altri ragazzi e ragazze fuori sede e per questo ho avuto tantissimi riscontri, molti rinunciano proprio all’università”.
La questione casa
Quello della casa è uno dei temi affrontati dal Rapporto Giovani 2023 – La condizione giovanile in Italia (Il Mulino), realizzato dall’Istituto Giuseppe Toniolo di studi superiori, ente fondatore dell’università Cattolica e uscito a metà giugno. Si tratta della più estesa ricerca sulla condizione giovanile in Italia che coglie i cambiamenti e le trasformazioni in atto e permette di capire come guardano la realtà le nuove generazioni.
Molti altri i temi trattati: il rapporto scuola-lavoro, la partecipazione sociale e politica, l’impegno nel Terzo settore e nel volontariato con due approfondimenti, uno sul conflitto in Ucraina e un altro sui cambiamenti climatici e il riscaldamento globale al fine di capire la posizione dei giovani e il loro desiderio di mobilitarsi.
Tornando al tema della casa, il Rapporto si è soffermato su qual è il senso e la prospettiva della casa per i giovani partendo dal confronto fra i dati di un’indagine che ha coinvolto cinque Paesi europei: Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna. “C’è un modello mediterraneo che propone uno slittamento dell’uscita della casa della famiglia di origine. Dai 18 ai 34 anni in Italia i giovani vivono con la famiglia di origine. Chi vive in affitto sono i più poveri: le fasce di popolazione giovani, gli stranieri, le famiglie numerose”, spiega Rita Bichi, docente di Sociologia generale all’università Cattolica di Milano e componente dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo, “la casa rappresenta un bene rifugio ma tanti giovani non si pongono il problema dell’acquisto. Si stanno ridisegnando gli stili di vita, compresa l’uscita dalla città per rivedere i ritmi della vita quotidiana, come la pandemia ha anticipato. La casa è vista anche come una scelta provvisoria legata ai servizi e ai bisogni che si vengono a costituire nel tempo della vita, quindi, non un acquisto per sempre ma si potrà cambiare durante la vita. Ultima tendenza è il fatto che i giovani la considerano come spazio di condivisione, anche dell’affitto, al fine di avere maggiori disponibilità economiche per soddisfare altre esigenze”.
La casa, come indicano molti sociologi ed economisti, è un problema che tocca non solo gli studenti e i giovani ma anche il ceto medio che combatte con l’aumento del costo della vita a parità di stipendio ed è diventato, oggi, un indicatore sensibile in tema di disuguaglianze.
Un nuovo modo di intendere il lavoro
(e la politica)
Il Rapporto fotografa altri aspetti della condizione giovanile. Per esempio, la disaffezione verso la politica e la tendenza crescente a non votare alle elezioni. Questo è un aspetto che li differenzia dalle altre generazioni perché i giovani di oggi non considerano il voto l’unica o la più importante modalità di partecipazione al dibattito politico.
“Quello che i dati dicono – spiega Alessandro Rosina, demografo e coordinatore scientifico dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo – è che non è diminuita l’offerta di partecipazione e tantomeno la voglia di protagonismo. C’è, in particolare, un forte desiderio di esserci dove le cose accadono, dove ci sono questioni considerate centrali per il proprio tempo, dove serve la propria spinta per superare limiti e storture di sistema. Lo si è visto recentemente nella mobilitazione spontanea a favore delle zone alluvionate, lo si riscontra sui temi dell’ambiente e dei diritti, lo si è osservato nella protesta per gli alti affitti universitari”.
Un altro aspetto esaminato dal Rapporto è quello del lavoro con il fenomeno delle “grandi dimissioni”, cioè di chi, soprattutto giovani, a cavallo e subito dopo la pandemia ha lasciato il proprio posto di lavoro perché insoddisfatto dello stipendio, dello stile di vita, della precarietà, dell’impossibilità di continuare a fare lo smart working e conciliare così più facilmente lavoro e famiglia.
“Non basta – avverte Rosina – formare bene i giovani, potenziare i servizi per l’impiego e dare incentivi per l’occupazione (tutti aspetti comunque più carenti in Italia rispetto ai Paesi con cui ci confrontiamo): è necessario anche essere attrattivi nei loro confronti e saper valorizzare al meglio il loro specifico contributo. Nei membri della Generazione Zeta è forte il desiderio di essere riconosciuti nella propria specificità. Sentono come riduttivo che venga chiesto di portare solo le competenze di cui l’azienda ha bisogno, mentre vorrebbero, prima di tutto, portare quello che sono. Il fenomeno delle ‘grandi dimissioni’ è espressione di questo mutamento qualitativo di fondo. Se non sentono di crescere in termini sia di proprio sviluppo umano sia di contributo nello sviluppo dell’azienda con il proprio valore distintivo, perdono motivazione e lasciano”.
Anche il concetto di flessibilità che chiedono i giovani è molto diverso da quello praticato in questi anni: “La flessibilità intesa come forma per poter assumere manodopera a basso costo e potersene facilmente disfare quando non più funzionale non si è certo rivelata una soluzione efficace per migliorare la condizione lavorativa delle nuove generazioni – sottolinea Rosina commentando il Rapporto – il timore di intrappolamento in percorsi di basso sviluppo professionale ha reso i giovani italiani, anche quelli ben preparati, ipercauti e diffidenti rispetto alla domanda di lavoro. A questa richiesta di adattamento continuo al ribasso, che limita la capacità di dare il meglio di sé nel lavoro e frena i progetti di vita, i giovani sono diventati sempre più insofferenti. L’impatto della pandemia ha, inoltre, accelerato un mutamento di fondo sulle priorità da dare alla propria vita e sull’idea di lavoro. La flessibilità di cui le nuove generazioni hanno bisogno è, allora, quella che consente di fare esperienze positive, di scegliere se rimanere in un’azienda o di cambiare per migliorare continuamente le proprie competenze professionali e sociali”.