FACCIAMOCI DUE CONTI…

“PREMESSO CHE LA GRAN PARTE DEL MONDO UMANITARIO È VIRTUOSA – OSSERVA L’AUTRICE DEL LIBRO L’INDUSTRIA DELLA CARITÀ – CHIUNQUE VOGLIA FARE BENEFICENZA, VOLONTARIATO O FAR PARTE DI UNA ONG DOVREBBE PRIMA INFORMARSI. BASTANO LE ULTIME PAGINE DEL BILANCIO, DOVE CI SONO LE ENTRATE E LE USCITE…”

I buoni non sono sempre buoni e le linee non sono mai nette. Su questo principio è nata l’esigenza, dieci anni fa, di andare a vedere da vicino cosa accade nel cosiddetto mondo umanitario dove, lo dice la parola stessa, c’è di mezzo l’essere umano, con tutte le sue virtù ma anche con tutte le sue debolezze… Un discorso che naturalmente riguarda tutti i settori della società. Nessuno escluso.

Tornando all’inchiesta, la firma è di una brava e coraggiosa giornalista e scrittrice veneta, Valentina Furlanetto, autrice del volume L’industria della carità (Chiarelettere, pp.243, 13 euro). La prima edizione del libro, appunto, è stata pubblicata dieci anni fa, ma d’accordo con l’editore sono state riproposte altre due pubblicazioni visto che al di là delle cifre e i dati, comunque cristallizzati, l’attualità del metodo di guardare le cose regge ancora. E cioè non fermarsi all’apparenza o alle belle parole. Vedere, ad esempio, quando apri un conto, oltre al volto del bancario anche quali tassi di interesse ti propone, che tipo di spese hai, eccetera. Oppure quando devi destinare una quota dell’imposta Irpef, il famoso 5 per mille, fare un altro tipo di donazione o far parte di un’associazione. In tutte queste pratiche, dunque, ciò che può sicuramente aiutarci è lo studio dei numeri.

Valentina, allora, che da oltre dieci anni fa parte della redazione di Radio 24 – Il Sole 24 ore occupandosi con grande professionalità di economia, attualità ed esteri, ha scelto di accendere i riflettori sul mondo della solidarietà. Anche sulla base dei suoi tanti reportage, ad esempio in Sierra Leone nelle strutture di Medici con l’Africa Cuamm, di Padova, in Giordania nei campi profughi gestiti anche da Unicef Unhcr dell’Onu, a confine tra la Polonia e l’Ucraina, a Lampedusa, eccetera.

Tanto per sgomberare il campo da ogni dubbio, le pagine di questo lavoro non intendono mettere in dubbio l’impegno di tantissime associazioni oneste e del corposo ed encomiabile esercito di volontari, tantomeno scoraggiare la beneficenza. La fotografia, infatti, dice che la maggior parte adotta comportamenti virtuosi, lodevoli, anche se a volte, però, in mezzo si nascondono delle opacità. In quel caso, allora, vanno assolutamente segnalate. D’altra parte informare i cittadini su comportamenti poco chiari e segnalare dove le migliori intenzioni iniziali si sono, nel tempo, trasformate in forme di potere e di gestione del potere a discapito del bene comune, dovrebbe far solo piacere a chi opera in maniera corretta e trasparente.

Tra l’altro è bene ricordare che, senza sparare nel mucchio, uno dei compiti principali del giornalista è proprio quello di vedere se per caso la realtà non sia diversa da quella che noi crediamo. Ecco, allora, che nel libro-inchiesta Valentina si è posta tante domande. Ad esempio, quanto spendono le Ong e le Onlus per il marketing e gli stipendi? Quanto denaro, invece, finisce effettivamente nei progetti che, grazie alla vostra beneficenza, vorreste che fossero realizzati? Che fine fanno i vestiti che lasciamo ai poveri? Come funzione il sistema delle adozioni internazionali? E il commercio equo solidale?

Al di là comunque degli aiuti di associazioni e organizzazioni umanitarie, tutti noi, quotidianamente e non solo con l’avvicinarsi del Natale, dovremmo diventare prossimi di tutti. Accorgerci degli altri, farci loro vicini, aiutarli e preoccuparci della soluzione dei loro problemi. Tenendo sempre presente che chi fa il bene non deve arrendersi nemmeno se rimane solo. Proprio come ci ha insegnato Gesù.

Ora ascoltiamo cosa ha da dirci Valentina.

Dieci anni fa con L’industria della carità, in modo certamente coraggioso, hai puntato l’indice nei confronti di certe opacità del Terzo settore in Italia. Per la prima volta si denunciava lo strapotere di talune organizzazioni: gli sprechi, poche trasparenze, bilanci oscuri e altro ancora. Oggi riproponi il volume con un’introduzione che colora i cambiamenti avvenuti nel decennio trascorso…

La prima edizione, in effetti, era molto contro corrente. Parliamo, infatti, di un periodo in cui c’era una grande benevolenza nei confronti delle persone che si occupavano di beneficenza, di Terzo settore, di non profit. Nei confronti delle organizzazioni c’era una fiducia molto alta. E talvolta mal riposta, ma non perché sia un settore più oscuro di altri, semplicemente perché è un settore come gli altri. Era assurdo, quindi, che ci fosse tanta benevolenza. Ad esempio da giornalista mi rendevo conto che, tutte le volte che i colleghi si occupavano del tema, avevano un pregiudizio positivo. Perché magari erano giornalisti attivisti, perché magari erano impegnati in politica e nel volontariato, perché questa passione nasceva spesso da qualcosa di personale. In pratica non c’era la giusta distanza. Come tutti i settori, allora, ho cercato di guardarlo in maniera “laica”, distaccata.

Ti eri occupata di Terzo settore già anni prima la pubblicazione del libro…

Sì, in una trasmissione che si chiamava Senza fine di lucro e parlava di associazionismo e non profit. Mi sono resa conto, osservando i bilanci delle associazioni delle Onlus e delle Ong, che c’erano tanti virtuosi, ma alcune opacità, come accade in tutti i settori. Mi sembrava surreale, allora, che nessuno ne parlasse. Così ho proposto all’editore questo tema che è stato accolto con molto coraggio. All’epoca, infatti, ero una perfetta sconosciuta, in più era un tema ostico, anche perché le persone che se ne occupano vogliono sentirne parlare sempre bene. Dopo la prima edizione ne sono state fatte altre due, a cinque e a dieci anni di distanza. Questo mi fa pensare a un libro diventato quasi un classico, cosa che mi fa molto piacere.

In quest’intervallo di tempo cosa è cambiato?

Tanto, soprattutto nella prospettiva dell’opinione pubblica che oggi, spesso, ha un pregiudizio negativo nei confronti soprattutto delle Ong. Il motivo? In Italia ci sono stati anni importanti d’immigrazione e le Ong hanno supplito una mancanza degli Stati, delle Istituzioni. Se prima c’era Mare Nostrum invece che Sofia, quando sono scomparse queste missioni si sono messe in mare le Ong e pian piano hanno incominciato ad allungarsi su di loro alcune ombre. Ombre che alla fine non hanno portato a nulla di concreto. Le tante inchieste, infatti, sono tutte finite in un nulla di fatto, molte non sono neanche arrivate al processo. C’è da dire che le Ong e le Onlus, e quindi tutto il volontariato, sono stati travolti da una campagna denigratoria, avviata a inizio 2017. Ombre che si sono allungate con le inchieste e soprattutto con le successive esternazioni.

A cosa ti riferisci in particolare?

A quelle dell’allora giudice Zuccaro di Catania che hanno iniziato a creare questo clima. Ora, invece, c’è un clima opposto per cui si pensa che tutte queste associazioni, o la maggior parte, abbiano un interesse economico nel portare i migranti qui. Nulla di più è irrazionale. Da una parte e dall’altra, infatti, noto una benevolenza prima e una malevolenza oggi, assolutamente irrazionali…

Entrare in un simile terreno, si sa, comporta grossi rischi. Nel tuo caso che effetti ha avuto?

Alla prima presentazione del libro, a Milano, tra l’altro molto affollata, mi sono trovata davanti a persone, verbalmente molto aggressive, che facevano parte del mondo del volontariato e dell’associazionismo. Erano particolarmente arrabbiate. Mi sono arrivate lettere di protesta, ad esempio anche da Greenpeace, guarda caso però nessuna querela… Confesso che ero molto più giovane e più ingenua, di conseguenza ero un po’ dispiaciuta che il libro fosse mal interpretato.

Qual è la cosa che più ti ha ferita?

Che non fosse appunto compresa la buonafede. Il fatto che quando in un settore ci sono dei comportamenti non virtuosi bisogna segnalarlo, sia si tratti di profit o di non profit. I comportamenti virtuosi, infatti, vanno aiutati, come se si segnalassero aziende che adottano una concorrenza sleale e altre, invece che rappresentano un modello. Non riuscivo a capire perché non ci fosse questa logica. Nei primi mesi ci sono rimasta molto male, poi, però le cose sono cambiate in modo singolare…

Cioè?

Le stesse persone che mi accusavano hanno iniziato a chiamarmi per moderare i loro convegni, perché a quel punto ero diventata una sorta di bollino di qualità… Se andavo a presentare il convegno di Pinco Pallino, significava che Pinco Pallino aveva superato il “setaccio” di Furlanetto, cioè colei che controllava i bilanci.

Tornando alle mancate querele, che lettura dare?

I dati erano quelli, giusti. D’altra parte ero sicura, avevo controllato bene i bilanci. E per fare un lavoro di questo tipo bisogna essere meticolosi. Ricordo, ad esempio, che controllavo sempre quanto era assegnato ai progetti, quanto al marketing e alla pubblicità, quanto alle spese di struttura. In certi casi, mi viene ad esempio in mente Greenpeace, ero stupita di quante spese andavano alla struttura e alla pubblicità, al marketing e alla raccolta fondi. Ho scritto questo libro anche perché avevo letto – e il mio titolo è un omaggio – un volume di Linda Polman, una scrittrice olandese, intitolato L’industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra. Avevo capito che non voleva gettare fango su questo settore, ma semplicemente sottolineare che, ad esempio, se nel Sud Sahara sono vent’anni che ci sono politiche di aiuto per la popolazione che vive sotto la soglia della povertà, com’è possibile che lo sia ancora oggi? Quindi era andata a spulciare tra gli aiuti internazionali. Io, allora, ho cercato di farlo un po’ più a livello italiano perché notavo che c’era uno stagno piatto dove bisognava lanciare un sasso per creare un po’ di movimento. Poi, sempre a proposito delle reazioni, mi è dispiaciuto anche che il libro sia stato usato come clava per dare addosso alle Ong negli anni in cui, appunto, si era scatenata una campagna contraria.

A proposito di Ong, tra gli operatori che compiono salvataggi in mare e quelli di terra – spesso cooperative – ci sono effettivamente legami?

No, è una gran barzelletta. Da anni mi occupo di migrazioni, sono andata a vedere, ad esempio, due grandi centri italiani. Uno dei più grandi in Europa, quello di Mineo, vicino a Catania e quello di Cona, vicino a Venezia, pure lui enorme. Erano due centri gestiti da false cooperative, nel caso di Mineo da un consorzio. Lucravano tutti e due, come hanno raccontato le cronache; su Cona ci sono tre inchieste. I titolari di questa falsa cooperativa si occupavano di smaltimento di rifiuti. Poi, negli anni del grande esodo (2015/2016), visto che i migranti fruttavano di più, hanno pensato di collocarli sotto dei tendoni nella campagna veneta, senza acqua calda e riscaldamento. Una situazione veramente degradante. Sia vedendo le carte, sia visitando i centri ci si rendeva conto che stavano lucrando sul rimborso dei famosi 36 euro al giorno a migrante. Per tornare alla tua domanda, dunque, non c’è nessun collegamento, le associazioni che sono in mare non gestiscono centri di accoglienza a terra. Purtroppo a volte l’opinione pubblica si fa fuorviare da certe leggende metropolitane….

Oggi, a tuo avviso, qual è il giudizio dell’opinione pubblica nei confronti del Terzo settore? Cos’è che disturba?

Credo che tra la gente ci sia una paura molto diffusa nei confronti dei migranti, che viene cavalcata per fini elettorali. Ciò disturba non poco. È una paura che non snobbo e non ritengo ininfluente, bisogna certamente prenderla in considerazione. Credo però sia figlia della non conoscenza, probabilmente sono persone che non sanno, che la politica non ha abituato al confronto. Quando, ad esempio, in una palazzina vengono collocati dei richiedenti asilo, perché non si organizza un’assemblea di quartiere per presentare queste persone? Sono piccoli gesti che farebbero avvicinare gli individui, farebbero capire che chi richiede asilo deve seguire un iter ben preciso, viene schedato. In pratica si sa tutto di lui e di conseguenza non dovrebbe far paura. Ovviamente c’è da considerare, magari, che parliamo di periferie dove i residenti, comunque, non hanno servizi, strutture locali cui appoggiarsi. E quindi a quel punto, ovviamente sbagliando, te la prendi con chi sta peggio di te e che magari non ha neanche le tue abitudini culturali… Ripeto, non è una paura che sottovaluto, ma a mio avviso è mal gestita, da una parte e dall’altra.

Cioè?

A chi fa comodo avere questo carburante elettorale fatto di rancore e a chi non ha mai tentato un avvicinamento, un dialogo. È chiaro, ad esempio, che quando nel 2016 il ministro Marco Minniti, riferendosi ai flussi migratori, parlava di un rischio democratico per il Paese, non poteva che alzare la tensione anziché abbassarla…

In che modo il tuo scritto potrebbe fungere da lanterna per distinguere tra buone e pessime pratiche, per orientarsi tra Ong e Onlus virtuose e meno virtuose?

Intanto, come metodo, consiglio di andare a vedere i bilanci, quelli economici, che oggi sono pubblici. Dieci anni fa, infatti, non sempre lo erano. C’è un obbligo di rendicontazione e quindi devono essere pubblicati sui siti. Chiunque voglia fare beneficenza, volontariato o far parte di una Ong, quindi, dovrebbe prima informarsi. Non serve guardarsi tutto il bilancio, bastano le ultime pagine, dove ci sono le entrate e le uscite. Da lì già si capisce molto. Sembra una cosa che spaventa, in realtà non è poi così difficile. E sapere già che una quota cospicua va ai progetti è una buona cosa.

Sarebbe importante capire anche chi sono i donatori…

Esattamente, parliamo di un altro grande tema. Cioè un’associazione che è pacifista, e si fa finanziare da un dittatore matto, sinceramente qualche dubbio dovrebbe suscitarlo… Magari sono d’accordo lo stesso, perché comunque quell’associazione mi convince per altre cose o perché mi giustifica quel finanziamento dicendo che comunque con quei soldi fa delle cose sacrosante. Ci può stare tutto, ma almeno lo so. Un’altra cosa che mi dà molto fastidio è l’incensare alcuni fondatori di associazioni che hanno una nomea di pacifismo. Quando, invece, gli stessi fondatori avevano una realpolitik molto discutibile… La realpolitik va anche bene, se tu devi lavorare in certi contesti pur di farlo accetti alcune cose. Devi saperlo, però, quando ti approcci a quel tipo di associazione.

Nel libro affermi che la povertà è un prodotto che viene venduto come altri, promuovendo costose analisi di mercato, organizzando campagne stampa, sbattendo spesso il volto di un bambino, preferibilmente affamato o sfigurato o impaurito, sullo schermo di un televisore o a tutta pagina su un quotidiano…

Sì, questo è un aspetto che coinvolge anche il lavoro di giornalista, perché noi siamo parte integrante del problema. A me dà fastidio quando la campagna pubblicitaria di un’associazione mette in primo piano un bambino, perché comunque andrebbe tutelato e perché comunque smuove dei sentimenti emotivi che hanno poco di razionale. Allo stesso tempo, noi giornalisti tendiamo a inseguire questa emotività e a enfatizzarla. Sì, c’è qualcosa di marcio in tutto questo, ma lo vediamo anche in queste ore, non parlando di associazioni ma di propaganda. Da una parte o dall’altra, nella guerra fra Hamas e Israele. C’è una certa pornografia delle immagini e purtroppo noi giornalisti non siamo per nulla estranei…

A tuo avviso fino a che punto ci si dovrebbe spingere “a fin di bene”?

Mamma mia che domanda difficile… Come si dice, le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni… Il mio bene magari collima con il tuo, quindi non c’è un assoluto in queste cose. Fare delle cose a fin di bene per me è sempre molto presuntuoso… Direi che il confine è il male degli altri, però è una domanda filosofica, quindi preferisco fermarmi sulla soglia…

Se chiedere dove vanno a finire le donazioni, e quindi realizzare inchieste spulciando i conti e verificando lo stato dei vari progetti, può essere considerato un caso di lesa maestà, come sarà mai possibile suscitare una maggiore consapevolezza dell’opinione pubblica e quindi metterla al riparo da brutte sorprese?

Il punto è proprio questo. Probabilmente sarò troppo fredda ma a mio avviso ci vorrebbero meno storie emotive e più concretezza. Anche quando si approcciano queste associazioni occorrerebbe essere più freddi, avere cioè un atteggiamento più pragmatico.

Con altrettanta onestà, però, non si può non lodare l’impegno quotidiano di tantissime associazioni oneste e volontari che ogni mattino si alzano con il solo intento di aiutare chi tende loro la mano. Preferisco essere ingannato nove volte, diceva papa Giovanni XXIII, piuttosto che non dare una volta a chi ne ha veramente bisogno…

Certo, sicuramente. Senza alcun dubbio la maggior parte dei volontari o degli attivisti è in assoluta buonafede. Tanto di cappello, quindi, a tutte le persone che si danno da fare, che donano o che comunque mettono gratuitamente il loro tempo a disposizione degli altri. Ho grande rispetto e stima per tutte queste persone, ci mancherebbe. Anche nei vertici di molte associazioni ci sono persone virtuosissime, perbene. Ad esempio, in una raccolta fondi legata alla tragedia dello tsunami è stata restituita la somma in eccesso. Oppure, dopo l’accordo fra l’Europa e la Turchia affinché si trattenessero i migranti siriani in Turchia, alcune associazioni, non ritenendolo etico, hanno rifiutato i fondi della Comunità Europea, uno dei donatori più grandi per le associazioni. Di esempi virtuosi, dunque, ce ne sono tantissimi e vanno sempre sottolineati. Io non voglio assolutamente demolire o screditare il settore, come non voglio esaltarlo. Voglio soltanto guardarlo come qualsiasi altro settore. Come se parlassimo, ad esempio, di giornalisti o di medici, dove troveremmo del buono e del cattivo.

Basta solo la lettura dei bilanci per indirizzare chi vuol fare una donazione o comunque aiutare le associazioni del Terzo settore?

Il bilancio, secondo me, resta uno strumento importante. Sarebbe importante, inoltre, conoscere la realtà dal di dentro in modo da comprendere meglio le dinamiche. Sicuramente, però, è più oneroso che staccare un assegno, fare un sms o un click.

“I buoni, quando pesti loro i piedi, possono diventare molto cattivi. E i sostenitori, quando stracci loro un sogno, covano risentimento…”. Ti riferisci in particolare a qualche episodio di cui sei stata testimone o vittima?

Già mentre scrivevo il libro, avvertivo la pressione. Quando cercavo di dipanare un po’ le cose, di affrontare le questioni che non andavano, mi sono imbattuta in atteggiamenti minacciosi e aggressivi. In particolare mi viene in mente un’intervista che feci con l’allora direttore dei progetti in Sudan di Emergency. Loro avevano mandato una mail in cui spiegavano la bellissima clinica pediatrica che avevano creato, munita addirittura di sale con aria condizionata. Come mai, chiesi, voi prendete i soldi dal dittatore Omar al-Bashir? Non è un controsenso visto che lui è parte in causa di quella guerra che causa, nel migliore dei casi, bambini feriti che vengono poi portati nella vostra clinica? Diventa un cortocircuito. Il direttore diventò aggressivo, rispose che comunque erano due piani diversi, eccetera…

Cosa ne pensi del recente accordo sulla gestione dei migranti siglato dal presidente Meloni con l’Albania?

Sinceramente non riesco a capire come concretamente si possa attuare, al di là di tutti i problemi di tipo costituzionale che potrebbero esserci. Porti via tutti i maschi adulti: che fai, dividi le famiglie? Eticamente lo puoi fare? Giuridicamente lo puoi fare? E poi logisticamente come fai? In Albania devono stare massimo 28 giorni, ma quando mai le pratiche di richiesta vengono espletate in 28 giorni… Fantascienza. Almeno vanno da sei mesi a un anno e mezzo. Dopo 28 giorni, quindi, cosa fai? Li riporti in Italia? Sembra il gioco dell’oca… Concretamente non mi sembra proprio realizzabile. Inoltre di chi è la giurisdizione? A quale commissione per il diritto d’asilo ti appoggi? A quella italiana? Di quale regione? Mi sembra tutto farraginoso, non riesco proprio a capire. Secondo me è uno spot elettorale, cioè una cosa buttata lì. Il presidente albanese Rama può dire che loro sono buoni, il presidente Meloni può dire che in qualche modo ha alleggerito il problema e insieme aspettano le elezioni europee. Incassano l’immagine e arrivederci…

Tra i tuoi tanti reportage nei luoghi popolati dai migranti, da gente disperata che non ha più niente, qual è l’immagine che più ti ha stretto il cuore?

Recentemente ho fatto alcuni viaggi a Lampedusa, uno lo scorso settembre quando c’è stata la grande emergenza con lo sbarco di circa 9 mila migranti. Sono arrivata giovedì sera, quando c’era proprio il picco. Era buio e insieme a una collega mi sono incamminata verso l’hotspot. A un certo punto, lungo la strada sterrata ci siamo rese conto che stavamo calpestando delle persone… Erano tutte distese, la stradina di campagna era piena di migranti sdraiati che dormivano all’aperto. Ragazzi, donne, uomini, bambini… Abbiamo acceso la torcia del cellulare e ci siamo resi conto che sotto i nostri piedi c’era una distesa di persone. Una scena che mi porterò sempre dentro…

Erano i giorni della visita del presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen…

Infatti. Tre giorni dopo sono arrivate lei e il presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Per l’occasione hanno svuotato l’hotspot, hanno portato via tutti i migranti. La mattina dell’arrivo ero sul posto verso le 8, stavano ripulendo minuziosamente la zona… Due giorni prima c’era di tutto, oltre alla distesa di corpi, la collinetta prospicente era un bagno a cielo aperto… Una cosa incredibile, un odore pazzesco Ho veramente un brutto ricordo. Chiamare l’Europa per far vedere cosa accade e poi ripulire tutto per non farle vedere qual è la realtà…

A Natale cosa scriverai nella letterina…

Posso solo ringraziare per la mia esistenza e per il fatto di vivere in certe latitudini…Tra i tanti che soffrono su questo pianeta, invece, oltre alle guerre in corso il mio cuore è vicino a quello delle donne dell’Afghanistan e dell’Iran. Mi si spezza il cuore al pensiero di ragazze e bambine che non possono studiare, non possono esprimersi… Questa è una cosa che noi abbiamo dimenticato, Iran e Afghanistan non sono infatti i nostri primi pensieri. Sicuramente la guerra in Ucraina e quella in Medio Oriente sono altrettanto vicende dolorose, mi piacerebbe però che si parlasse di più di quei popoli. Una donna come fa oggi a vivere in Iran o in Afghanistan? È una cosa che mi fa molto male.

L'ECO di San Gabriele
Panoramica privacy

Questo sito utilizza cookies per migliorare l'esperienza di navigazione.

I cookies sono piccoli files di testo salvati nel tuo browser per facilitare alcune operazioni. Grazie ai cookies, se torni a visitare il sito potrai essere riconosciuto non dovendo dare nuovamente il consenso al trattamento dei dati personali e saranno ricordale le preferenze già espresse.

Per gli sviluppatori, i cookies indicano le pagine più apprezzate dai visitatori al fine di un ulteriore sviluppo del sito.