DALLA SCHIAVITÙ ALLA SANTITÀ

Giuseppina Bakhita è passata attraverso indicibili sofferenze dalla schiavitù alla libertà umana e a quella della fede, fino a consacrare la propria vita a Dio nell’Istituto delle Figlie della Carità fondate da Matilde di Canossa. Morì a Schio, provincia di Vicenza il 1947 e il 1° ottobre del 2000 fu canonizzata da papa Wojtyla

Non è cosa di tutti i giorni imbattersi in un personaggio divenuto, a sua insaputa, simbolo di una problematica, tanto discussa e mai risolta. Lei, invece, sì. Ha saputo trovare la giusta soluzione, non con le parole, ma con la vita vissuta. Sto parlando di suor Giuseppina Bakhita del Sudan. Una suora dell’Africa nera, proclamata santa da Giovanni Paolo II il 1° ottobre 2000.

La problematica di cui sopra, riguarda lo “Ius culturae”. Ossia, l’atto giuridico che permette di ottenere la cittadinanza italiana a uno straniero che abbia frequentato corsi di istruzione e formazione professionale. Nel caso nostro, l’integrazione di suor Bakhita è avvenuta con naturalezza e in maniera encomiabile.

Ma ripercorriamo le vicende della sua vita nei tratti più salienti. Bakhita nasce a Olgossa, in Sudan, nel 1869. Ad appena sette anni viene rapita da mercanti arabi di schiavi. La bambina, strappata senza pietà dalla famiglia, subisce un trauma così forte, da dimenticare addirittura il proprio nome e quello dei suoi cari. A quel punto, i rapitori per chiamarla le impongono un nome nuovo: Bakhita, che in arabo significa “Fortunata”. Teniamo presente che in quell’epoca in molti stati dell’Africa il mercato degli schiavi era purtroppo fiorente. La piccola Bakhita viene venduta più volte sui mercati di El Obeid, città del Sudan settentrionale e di Khartum. Durante questo traffico disumano viene fatta oggetto di umiliazioni e di sofferenze fisiche e morali inenarrabili.

Nel periodo in cui stava a servizio di un generale turco, Bakhita venne sottoposta a un tatuaggio cruento. Prima le disegnarono oltre un centinaio di segni sul petto, sul ventre e sul braccio destro. Poi quei segni vennero brutalmente incisi con un rasoio e cosparsi di sale per far sì che producessero cicatrici permanenti.

Finalmente, per la ragazza sudanese si compie una svolta provvidenziale. A Khartum, capitale del Sudan, il console italiano Callisto Legnani, vedendola in quella situazione pietosa di schiavitù, decide di comprarla col proposito di renderle la libertà. Successivamente, Augusto Michieli, un amico del Console, prende la ragazza a casa sua in Italia come baby-sitter di sua figlia. In seguito viene accolta nell’Istituto dei Catecumeni a Venezia dalle Figlie della Carità (Canossiane). In questo ambiente religioso, sboccia in lei la vocazione di farsi suora. Nel 1896 assume il nome religioso di Giuseppina Margherita Bakhita. Però il nome impostole dai mercanti arabi, la contraddistinguerà per sempre, anche come santa. Nel 1902 viene trasferita in un convento dell’ordine a Schio (VI). Qualcuno ha scritto di lei: “È nata in Sudan, ma è in Italia e a Schio che si è realizzata come donna e come persona libera”.

Bakhita, una simpatica suora di colore, parlava solo il dialetto veneto perfettamente. Gli Scledensi (abitanti di Schio, ndr), per i suoi modi gentili, la voce calma, il volto sempre sorridente, l’hanno ribattezzata col nome di “Madre Moréta”.

È morta a Schio l’8 febbraio 1947. Settant’anni dopo, il 28 novembre 2017 il Consiglio comunale di Schio “ha votato e approvato all’unanimità un documento che conferisce la cittadinanza onoraria a santa Giuseppina Bakhita, la schiava sudanese emancipata dal console italiano a Khartoum e giunta in Italia, immigrata ante litteram, nel 1884”.

Il suo corpo è venerato nella chiesa della Sacra Famiglia di Schio, conosciuta anche come santuario di Santa Bakhita. “La Madre Moréta – è stato scritto – raccontava che come schiava non c’era giorno passato senza piaghe, provocate dalle punizioni che lasciavano dei segni sul suo corpo, sapeva per esperienza che si trattava di punizioni causate dagli sbagli altrui: per questo non si ribellava, il padrone umano non poteva sapere ciò che solo Dio conosce, ecco perché imparò a chiamarlo con l’appellativo confidenziale di el Paron”.

Esprimeva così il suo amore per Gesù che portò su di sé il dolore degli altri… Solo lui è, dunque, l’unico Paron. Questa è la sua teologia, essenziale, fondamentale, la sua “via, verità e vita”.

Il convento-santuario di Schio attira pellegrini da tutto il mondo. Lei, come l’ha definita san Giovanni Paolo II – è veramente “la sorella universale”.

L'ECO di San Gabriele
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