COME SI DIVENTA ADULTI

Si può educare senza correre rischi? Si può pensare di controllare i propri figli fin nei minimi particolari? Le emozioni, gli errori, le cadute sono un “male necessario”, che agevola il percorso educativo, o sono da evitare a tutti i costi attraverso una strategia del controllo sempre più pervasiva? Pedagogisti ed esperti una risposta ce l’hanno ma molti genitori ed educatori non vogliono seguirla. La risposta è semplice: no, non è possibile educare senza rischi. Non è possibile crescere e diventare adulti senza emozioni, come la paura o la delusione per un amore che finisce, anestetizzandole in nome dell’efficienza a tutti i costi.

La cronaca è piena di storie, forse anche minime, ma emblematiche. Ci sono adulti che preparano lo zaino ai figli ogni sera. Quelli ossessionati dal cellulare che vanno subito in allarme se non rispondono o su WhatsApp nel giro di pochi minuti. Altri ancora che vanno a prendere i propri ragazzi da scuola anche se si trova a cento metri da casa.

L’ultimo caso, che ha suscitato dibattito e polemiche sui giornali, riguarda le reazioni dei genitori all’esame di maturità dei propri figli. Molti si sono presentati a scuola con mazzi di fiori e bottiglie di spumante per festeggiare con loro e mettersi in posa per la tradizionale foto ricordo come se fosse la discussione della tesi di laurea. Ai nostri tempi, hanno detto molti commentatori, magari esagerando un po’, i nostri genitori non sapevano neanche la data degli orali dell’esame di Stato.

Non è una questione solo generazionale ma anche e soprattutto educativa. “Credo che questo fenomeno ci colpisca per due motivi – ha spiegato lo psicoterapeuta e scrittore Alberto Pellai – da una parte, ci dice che noi genitori non capiamo più qual è la nostra posizione nel territorio di crescita dei nostri figli. Siamo onnipresenti. A volte francamente esondanti e straripanti. Diciamo che l’esame di maturità dovrebbe essere una questione tra soggetti di pari età. Tu arrivi a scuola al mattino dell’orale e lì ci sono i tuoi compagni che stanno affrontando la stessa sfida. Ci si sostiene, ci si dà forza. Un momento come questo è cosa loro, non di noi adulti. Noi dovremmo essere a casa, pazienti e un po’ agitati. Anche emozionati, perché sappiamo benissimo che quella prova segna l’ingresso nell’adultità. Non per niente si chiama maturità. E quindi: perché accompagnarli, perché festeggiarli lì, fuori da scuola, in un territorio che appartiene totalmente a loro? Perché obbligarli a subire l’ingombrante presenza adulta, in un momento che dovrebbe essere loro e totalmente loro?”.

Pellai si è chiesto: “Avremmo voluto i nostri genitori a guardarci durante la nostra prova? Ci saremmo sentiti tranquilli a saperli lì, mescolati ai nostri compagni e compagne, magari attivamente coinvolti a fare domande e scambiare commenti?”. La risposta che s’è data è che per gli adulti ci sono posti da cui stare lontani, “luoghi dove i nostri figli compiono i loro riti, affrontano i loro passaggi di crescita. E l’esame di maturità non ha bisogno della presenza dei genitori. Non è cosa nostra. È cosa loro”.

Per Pellai l’altro aspetto è che i festeggiamenti per la maturità sono diventati una festa di laurea in anticipo: “Anticipare tutto è il vero problema di questa società – sostiene l’esperto – oggi i nostri figli fanno feste di 18 anni che sono più sfarzose delle feste di matrimonio di vent’anni fa. E noi siamo sempre lì, a supervisionare, gestire, controllare, supportare. Togliamo lo spazio proprio nel momento in cui la vita ci chiede di fare loro spazio. Anzi di darglielo e consegnarglielo. Chiavi in mano. Invece le chiavi continuiamo a tenerle in mano noi”.

Sulla “questione Maturità” un altro critico è lo psichiatra Paolo Crepet il quale nel suo ultimo libro Mordere il cielo – Dove sono finite le nostre emozioni (Mondadori) lancia un appassionato appello alla società contemporanea, esortandola a ribellarsi contro le nuove forme di sopravvivenza dei nostri tempi, identificate nella negazione e nella paura, sottolineando come la ricerca di emozioni autentiche sia diventata sempre più difficile. Festeggiare con tanto di fiori e spumante la maturità per Crepet è un atteggiamento che danneggia i ragazzi, privandoli della capacità di affrontare le sfide della vita: “È evidente che agendo così i genitori indeboliscono i figli. Non essere capace di vedere il ridicolo in questo atteggiamento vuol dire non capire niente”.

I fiori alla maturità sono la punta dell’iceberg perché, per Crepet, il problema è l’atteggiamento iperprotettivo di molti genitori moderni. Come il caso di una madre che era andata all’istruttore di nuoto del figlio per dirgli di non usare più a lezione l’espressione “fare il morto” perché era traumatizzante per il ragazzo. Oppure genitori che vietano ai figli di giocare a nascondino per paura che scompaiano davvero.

Crepet critica questo atteggiamento iperprotettivo di molti genitori moderni: “Noi stiamo tirando su dei giovani, ragazzi, ragazzi ereditieri, di tanto o di poco, questo dipende da quello che ha messo via il nonno o il papà o la mamma, però sono lì sul divano che aspettano che qualcuno prima o poi crepi”. Secondo lo psichiatra, questo approccio è deleterio perché non permette ai ragazzi di crescere e maturare attraverso le frustrazioni e le sfide. Un gesto apparentemente innocuo come rifare lo zaino al figlio è per Crepet emblematico: “Non so, io non penso che l’umanità sia passata attraverso dei genitori così deficienti. Che cosa c’è in noi genitori che ci ha fatto diventare così deficienti?”, si chiede provocatoriamente. Suggerisce invece ai genitori di essere guide, di accompagnare i figli lasciandoli però liberi di sperimentare e di sbagliare, di cadere e rialzarsi, di restare delusi e ricominciare.

Beninteso, non è possibile generalizzare e fare di tutta l’erba un fascio. Però il problema esiste come dimostrano i casi di cronaca, a volte persino grotteschi. Gli esempi si sprecano: la riscrittura in chiave politicamente corretta delle fiabe, da Cappuccetto Rosso a Biancaneve, per evitare di turbare chi legge o la definizione di “trauma” da parte di genitori e medici se un bambino urta lo spigolo con il mignolo.

Atteggiamenti che provocano nei ragazzi una reazione piuttosto singolare: “Non dico niente a mamma e papà per non farli preoccupare”. Anche in passato non si dicevano le cose ai grandi, ma era per farla franca, per essere più liberi, magari per evitare la punizione. “In modo esplicito e palpabile, oppure più sottile e inconfessato, c’è oggi in moltissimi ragazzi il timore di dare un carico di preoccupazione troppo grande ai genitori”, spiega la pedagogista Barbara Baffetti che ha raccolto molte di queste storie nel suo ultimo libro Educare alla differenza (San Paolo), “ci sono madri e padri affettuosi ma anche iperprotettivi, che danno un’immagine di emotività a volte incontrollata, senza contenimenti. Questo i ragazzi lo percepiscono, e in alcuni casi si trovano precocemente adultizzati, ma poi ovviamente non sono capaci di farsi carico dei problemi degli adulti, di conseguenza reagiscono o con la rabbia o con un adattamento fatto di silenzi e autarchia”.

Un altro aspetto denunciato dagli esperti è la sindrome della performance in cui siamo chiamati a essere efficienti in tutto: nello studio, nel lavoro, nell’immagine esteriore. “Questa efficienza – avverte Baffetti – è ora entrata anche nelle relazioni: se falliscono, inondano di fallimento anche la persona. È importante contrastare questa deriva: come genitori dobbiamo cominciare a farlo partendo da noi stessi e dai nostri comportamenti. A volte infatti non c’è molta coerenza tra le raccomandazioni che si fanno ai figli e il modo in cui si agisce nel quotidiano; a volte si fissano obiettivi in astratto senza prestare ascolto alla loro vocazione, senza contemplare la possibilità di un ritardo, una battuta d’arresto, una sconfitta”.

Insomma, più che adulti chioccia servono “adulti-fiaccola”, come scrive papa Francesco in Amoris Laetitia, capaci di “affiancarsi e illuminare un cammino rispettando il passo, accettando di mescolarsi con altri che sono lungo quella stessa strada, senza spaventarsi delle tenebre intorno”.

Una sfida complicata ma affascinante.

L'ECO di San Gabriele
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