COME EREDITÀ TI LASCIO LA POVERTÀ…

In Italia, se si nasce in una famiglia povera, occorrono cinque generazioni per salire la scala sociale (la media Ocse è di 4,5 anni). Il Reddito di Cittadinanza è uno strumento essenziale che va però migliorat.

Oggi il 13% di chi lavora in Italia è povero e rientra nella categoria chiamata, in inglese, dei woorking poor. Nel 2021, anche a causa della pandemia, sono aumentati i poveri assoluti: 1 milione 960 mila famiglie, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In Italia, se si nasce in una famiglia povera, occorrono cinque generazioni per salire la scala sociale (la media Ocse è di 4,5 anni). Viene chiamata “povertà intergenerazionale” o “ereditaria” e si usa la metafora dei cosiddetti sticky grounds e stichy ceilings.

Sono le tre tendenze emerse dal Rapporto 2022 “L’anello debole” su povertà ed esclusione sociale nel nostro Paese realizzato da Caritas italiana. Sono considerate in povertà assoluta le famiglie e le persone che non possono permettersi le spese minime per condurre una vita accettabile. La soglia di spesa sotto la quale si è assolutamente poveri è definita dall’Istat attraverso il paniere di povertà assoluta. Questo comprende l’insieme di beni e servizi che vengono considerati essenziali. Ad esempio le spese per la casa, quelle per la salute e il vestiario.

Negli ultimi anni la quota di persone in povertà assoluta è aumentata. Nel 2005 si trovava in queste condizioni il 3,3% della popolazione residente in Italia; dodici anni dopo, nel 2017, erano l’8,4%. Nel 2021, anche a causa della pandemia, sono saliti al 9,4%.

Il Rapporto Caritas, grazie ai suoi Centri di ascolto presenti capillarmente su tutto il territorio italiano, è una fotografia completa e dettagliata delle disuguaglianze del nostro Paese.

Quasi 2.800 Centri di ascolto Caritas solo nel 2021 hanno effettuato oltre 1,5 milioni di interventi, per poco meno di 15 milioni di euro, con un aumento del 7,7%, rispetto al 2020, delle persone che hanno chiesto aiuto. Anche nel 2022 – ha sottolineato il presidente di Caritas italiana, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli, arcivescovo di Gorizia, durante la presentazione del Rapporto – i dati raccolti fino a oggi confermano questa tendenza. Non si tratta sempre di nuovi poveri ma anche persone che oscillano tra il dentro e fuori dallo stato di bisogno. Tra questi coloro che, pur lavorando, sono poveri (working poor) oggi sono pari al 13% degli occupati. Il 23,6% di quanti si rivolgono ai centri di ascolto sono lavoratori poveri. Sono in aumento gli stranieri rispetto agli italiani: questo è comprensibile perché in una situazione di peggioramento economico i primi a entrare in difficoltà sono coloro che, come gli stranieri, hanno spesso un lavoro precario, spesso al di sotto della preparazione professionale)”. Per Redaelli “è necessario dunque impegnarsi sempre di più, in una logica condivisa e di rete, per restituire dignità al lavoro. Soltanto così sarà possibile far uscire tantissime famiglie e tantissimi giovani dalla zona d’ombra in cui purtroppo sono finiti in questi ultimi anni e spezzare anche quella povertà che per troppe persone e intere generazioni sembra destino inevitabile”.

Inoltre, nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati che passa dal 41% al 47,1%; parallelamente si contrae la quota degli occupati che scende dal 25% al 23,6%. Risulta ancora marcato anche nel 2021 il peso delle povertà multidimensionali: nell’ultimo anno il 54,5% dei beneficiari Caritas, spiega il Rapporto, ha manifestato due o più ambiti di bisogno. In tal senso prevalgono, come di consueto le difficoltà legate a uno stato di fragilità economica, i bisogni occupazionali e abitativi; seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità), le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori.

L’ascensore sociale

sempre più bloccato

L’altra prospettiva di lungo periodo emersa dal Rapporto è che sei assistiti Caritas su dieci sono poveri “intergenerazionali”, sono rimasti cioè intrappolati nei “pavimenti appiccicosi”. Tra i nati da genitori senza alcun titolo, quasi 1 su 3 si è fermato alla sola licenza elementare. Con 5,6 milioni di poveri assoluti in Italia (il 9,4% della popolazione, pari a 1 milione 960 mila famiglie), di cui 1,4 milioni bambini (fonte Istat), l’Italia risulta l’ultima tra i Paesi industrializzati per mobilità sociale ed educativa: solo l’8% dei giovani con genitori senza titolo superiore ottiene un diploma universitario (la media Ocse è del 22%). Al contrario, la percentuale sale al 65% per i figli dei laureati (dati Ocse). Per i nati in famiglie poste in fondo alla scala sociale diminuiscono le chanches di salirne i gradini: il 28,9% resterà nella stessa posizione sociale dei genitori. L’Italia ha in Europa anche il triste primato dei Neet: 3 milioni di giovani tra i 15 e i 34 anni, pari al 25,1% del totale, che non studiano né lavorano.

Tra gli assistiti da Caritas i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59,0%; nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato (rispettivamente 65,9% e 64,4%). Più del 70% dei padri degli assistiti Caritas risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e il 42,8% ha invece sperimentato una “mobilità discendente”. Più di un terzo (36,8%) ha, invece, vissuto una mobilità ascendente in termini di qualifica professionale ma non trova un impiego adeguato agli studi.

Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto – si legge nel Rapporto – il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. In primis nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare)”.

Caritas ha fatto anche una ricerca pilota in sei diocesi italiane per raccontare il vissuto delle famiglie in povertà intergenerazionale. Sono emerse situazioni in cui ai fattori fondamentali che determinano la trasmissione della povertà (educativa, lavorativa ed economica), si aggiungono la dimensione psicologica (bassa autostima, sfiducia, frustrazione, traumi, mancanza di speranza e progettualità, stile di vita “familiare”), conseguenza di un vissuto lungamente esposto alla povertà e una più ampia dimensione socio-culturale (territorialità, contesto familiare, individualismo, sfiducia nelle istituzioni e nella comunità, povertà culturale), che coinvolge tutta la società ma si amplifica nelle fasce di popolazione in situazione di disagio. “Ne deriva – spiega la Caritas – la necessità di interventi e presa in carico che vadano oltre gli indispensabili aiuti materiali che, nel caso delle povertà multigenerazionali, non appaiono sempre risolutivi. I due elementi chiave nelle storie con esito positivo sono la cura della relazione di fiducia con accompagnamenti prolungati nel tempo e l’inserimento attivo nelle comunità, costruendo reti di sostegno e di reciprocità, sensibilizzando e attivando le comunità alla prossimità”.

La questione del Reddito

di cittadinanza

Il Rapporto affronta anche il tema del Reddito di cittadinanza (Rdc) al centro anche del dibattito politico con il Movimento 5 Stelle che nell’ultima campagna elettorale per le elezioni politiche ha difeso la sua misura di bandiera e il governo Meloni che ha annunciato di volerla rivedere ampiamente.

Il Rdc è stato finora percepito da 4,7 milioni di persone, “ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%) – rileva il Rapporto Caritas – sarebbe quindi opportuno assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti. Accanto alla componente economica dell’aiuto vanno garantiti adeguati processi di inclusione sociale” al momento ostacolati da “una serie di vincoli amministrativi e di gestione”. Il Rapporto offre diverse proposte, tra cui rafforzamento della capacità di presa in carico dei Comuni, anche attraverso il potenziamento delle risorse umane e finanziarie a disposizione e un miglior coordinamento delle azioni. Nel volume è contenuta anche una indagine condotta in 10 Paesi europei in collaborazione con Caritas Europa e Don Bosco international sul futuro lavorativo e formativo dei giovani in difficoltà. Per almeno quattro studenti su cinque, la pandemia ha influito negativamente nella pianificazione del loro futuro. Da un campione di giovani in cinque Paesi è emerso che il 41,3% di essi ha vissuto in famiglia gravi problemi economici a causa del Covid; il 44,1% riceve aiuto per pagare le spese scolastiche; il 37,4% non si sente preparato per continuare gli studi; il 57,1% non si sente pronto a entrare nel mondo del lavoro; il 78,6% non è stato aiutato da nessuno a scuola per orientare il proprio futuro.

Il Rdc da riformare ma non abolire. Lo ha ribadito, commentando i dati della Caritas, anche il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi: “Una cosa che mi ha colpito del Rapporto, e speriamo che il governo sappia affrontare con molto equilibrio – ha detto – è il problema del Reddito di cittadinanza che è stato percepito da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti. Quindi c’è un aggiustamento da fare ma mantenendo questo impegno che deve essere così importante in un momento in cui la povertà sarà ancora più dura, ancora più pesante e rischia di generare ancora più povertà in quelle fasce dove si oscilla nella sopravvivenza, che devono avere anche la possibilità di uscire da questa zona retrocessione”.

Sulla stessa linea anche le Acli. “Il RdC – ha spiegato il vicepresidente nazionale Antonio Russo – andrebbe migliorato e rafforzato, così come indicato dalle associazioni aderenti all’Alleanza contro la povertà: migliorando la scala di equivalenza, che attualmente penalizza le famiglie con più figli; riducendo il tempo di residenza degli immigrati che chiedono di accedere al RdC, da 10 a due anni; rendendo più flessibile il vincolo sui patrimoni mobiliari. Inoltre occorre rimuovere gli attuali automatismi della presa in carico tra Centri per l’impiego e Comuni, rafforzandone la collaborazione; rendere volontaria l’adesione ai Progetti utili alla collettività; prevedere anche la formazione dei beneficiari per aumentarne l’occupabilità; infine, migliorare le compatibilità tra Reddito di cittadinanza e reddito da lavoro”.

L'ECO di San Gabriele
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