COME ANNUNCIARE GESÙ AI BAMBINI?

Oggi, mio nipote, all’ora di pranzo, mentre guardava i cartoni, ha chiesto a bruciapelo: “Nonno, cosa c’è quando finisce il cielo?”. Questa domanda è esplosa in lui, improvvisa, come se la covasse dentro. Sono rimasto interdetto. Come può un bambino, di non ancora cinque anni, giungere a pensare che il cielo possa avere un limite, scomodando i concetti di finito e infinito? Allora, hanno ragione quanti affermano che una parte della nostra conoscenza non deriva dall’esperienza ma dalla mente stessa, da processi del pensiero (Platone, Cartesio). Forse dalla contemplazione dell’assoluto (Agostino). E ha ragione chi parla di pensiero metafisico infantile (Mounier). Mentre, Kant, dopo aver affermato che la conoscenza può nascere solo da dati sensoriali esterni a noi, si chiede, con inquietudine, come si spiega, allora, l’impulso a conoscere la totalità delle cose, della quale non abbiamo esperienza.

Anche psicologi e pedagogisti, del resto, hanno affrontato questo problema. Secondo loro, i bambini, con i loro discorsi e disegni, sembra, talvolta, che sappiano come è fatto Dio. Piuttosto, io porrei un’altra domanda: Quando tempo s’impiega a far sì che un bambino dimentichi come è fatto Dio? “Oggi, i genitori – afferma Pino Pellegrino, psicologo e pedagogista – non parlano esplicitamente di Dio. Hanno paura di passare per matti. Ma per lo sviluppo dell’immagine di Dio, l’apporto dei genitori è decisiva. Oltretutto, il rapporto che i figli hanno con i genitori viene automaticamente trasferito al rapporto del bambino con Dio. La relazione fra bambino e Dio, dunque, ha bisogno di un terreno adatto. Per cui, nascondere Dio a un ragazzo è un grave reato emotivo e morale”.

A rifletterci, questo discorso carica gli educatori di pesanti responsabilità. Se la relazione fra genitori e figli si proietta immancabilmente sull’idea che essi hanno di Dio, allora, poveri noi! “È impossibile parlare di Dio, – spiega Pino Pellegrino – se non si tiene in conto la felicità. Senza gioia non si vive, né si fa vivere. Le facce da funerale sono le meno adatte a rappresentare Dio. Ma, soprattutto, l’amore è l’ingrediente fondamentale per predisporre un bambino all’accoglienza di Dio. Il figlio che si sente amato dai genitori sperimenta quella fiducia di fondo che gli permette di vedere le cose in positivo e di gustare la vita. La presenza di Dio, nella mente di un bambino, dona senso alle cose e lo aiuta a fronteggiare anche il mistero del dolore, il tema delle disgrazie e della morte. L’uomo può anche convivere con il mistero (cosa c’è oltre il cielo, cosa avviene dopo questa vita) ma non può convivere con l’assurdo. Il non senso della sofferenza lo angoscia. Invece, sapere che c’è Uno che scrive diritto anche su righe che a noi sembrano storte aiuta il bambino a dare un senso alla realtà”.

Proprio così. Una religiosità equilibrata costituisce la sorgente dell’armonia interiore. Ma, chiediamoci, come può apparire, oggi, la realtà a un bambino che entra a scuola alle otto del mattino per uscirne alle quattro o alle sei del pomeriggio. Per ritrovarsi spesso, poi, con genitori stressati dal lavoro e polarizzati su tanti altri obiettivi? La relazione con genitori, nonni e compagni del vicinato, infatti, è la migliore alternativa alla realtà virtuale della rete e dello schermo televisivo.

Fondamentale è anche il contatto con la natura. Ma, occorre suscitare nei bambini lo stupore di fronte alla perfezione dell’universo. Un ragazzo senza capacità di meravigliarsi è un individuo insensibile, indifferente. “Intanto, – commenta Pellegrino – non si può parlare di ‘natura’ ma di ‘creato’. C’è una differenza sostanziale sul piano emotivo e dei comportamenti. Il ‘creato’ è un dono che ci è stato fatto. Ne deriva che, se Dio ne è il creatore, l’universo è da contemplare, non da depredare. Non possiamo ferirlo o rubargli l’incanto”.

L'ECO di San Gabriele
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