di J. Bernlef, traduzione di Stefano Musilli,
Fazi Editore. pp. 164, euro 16.50
“In mancanza di memoria puoi soltanto guardare, e allora il mondo ti scorre attraverso senza lasciare traccia”. Nel caos che affolla la mente del settantenne Maarten Klein c’è una delle sfide più importanti dei nostri giorni. Il Novecento, destinato a diventare per sempre il secolo della memoria, si era aperto ironicamente con la scoperta di uno psichiatra tedesco, Alois Alzheimer, che nel 1906 aveva descritto per la prima volta una forma di demenza degenerativa diffusa su larghissima scala. Quando Chimere viene pubblicato, nel 1984, il mondo è tornato a ragionare sul ruolo del ricordo.
Tra i capolavori assoluti della letteratura olandese, il romanzo mostra una mente che si spegne progressivamente, come una lampadina: prima qualche sfarfallio ogni tanto (magari confondendo i giorni della settimana), poi intermittenze sempre più profonde (chi nasconde gli attrezzi da cucina?), poi lampi confusi (ciò che ricordo è accaduto oggi o quarant’anni fa?); infine, il buio. L’unico punto di vista – ecco l’enorme sfida narrativa – è quello di Maarten; sua moglie Vera, che lo accudisce durante la regressione, è l’ultimo aiuto di un mondo che gli sta sfuggendo. È un libro che non tenta neanche per un secondo di dissimulare la tristezza: è dolorosamente umano, così com’è dolorosamente reale.