La scomparsa di tante attività, che erano sempre localizzate nei centri storici, ha impoverito anche il tessuto urbano e sociale delle città. Nell’ultimo decennio hanno registrato la maggiore variazione negativa le province di Vercelli e Teramo
Domandate a un bambino cosa vuole fare da grande; oppure a un genitore cosa vorrebbe che facesse il proprio figlio. Tra le migliaia di risposte, difficilmente vi sarà quella dell’artigiano, cioè – secondo la Treccani – “chi esercita un’arte manuale per la produzione di beni e servizi”. Ecco perché poi non è facile trovare un falegname, un idraulico, un imbianchino, un calzolaio, un sarto, un elettricista e via elencando. C’è la crisi occupazionale, ma l’artigiano non vuole farlo più nessuno. Eppure si tratta di un’attività che consente di vivere dignitosamente, di avere anche una certa indipendenza lavorativa e, in alcuni settori, di poter dare sfogo alle proprie fantasie artistiche. È vero che la pandemia ha peggiorato la situazione, ma la crisi dell’artigianato parte da molto lontano e non accenna a diminuire. Dal 2012 sono scesi di quasi 325 mila unità (-17,4%) e in questi ultimi 10 anni solo nel 2021 la platea complessiva è aumentata, seppur di poco, rispetto all’anno precedente.
Secondo gli ultimi dati resi disponibili dall’Inps, nel 2022 vi erano 1.542.2991 artigiani. L’Ufficio Studi della Cgia ha elaborato ed esaminato questi dati ed è giunto alla conclusione che non solo i giovani sono sempre meno interessati a lavorare in questo settore, ma anche chi ha esercitato la professione per tanti anni e non ha ancora maturato i requisiti per andare in pensione, spesso preferisce chiudere le partite Iva e continuare a rimanere nel mercato del lavoro come dipendente. Il motivo? Rispetto a un artigiano ha meno preoccupazioni e più sicurezze. Per questo va modificandosi anche la composizione anagrafica degli addetti del settore: gli artigiani over 70 aumentano del 47 per cento, quelli under 30 crollano del 42 per cento. È la conferma che l’artigianato non attira più. Dall’impagliatore al barbiere, dal sarto al corniciaio: non ci sono più eredi di queste antiche tradizioni, che in parte vengono assorbite da nuovi lavori, più semplici e redditizi che spaziano dalla solita ristorazione ai tatuaggi, dai centri benessere ai locali degli estetisti.
La scomparsa di queste attività, che erano sempre localizzate nei centri storici, ha impoverito anche il tessuto urbano e sociale delle città. I locali degli artigiani, un pezzo del Dna italiano, sono stati sostituiti da negozi alla moda, da wine bar e ristoranti. Il risultato è lo stravolgimento dei luoghi ormai privi di quelle botteghe, nella stragrande maggioranza dei casi a conduzione familiare, che hanno contraddistinto la storia di molti quartieri, piazze e vie delle nostre città, diventando dei punti di riferimento che davano una identità ai luoghi in cui operavano. Un grande spreco di storia, di opportunità di lavoro e anche di competenze che si perdono in modo definitivo. Uno straordinario presidio in grado di rafforzare la coesione sociale di un territorio. Con meno botteghe e negozi di vicinato, diminuiscono i luoghi di socializzazione a dimensione umana rendendo meno vivibili e più insicure le zone urbane che subiscono queste chiusure, penalizzando soprattutto gli anziani.
A giudizio della Cgia le cause di questo crollo sono il forte aumento dell’età media degli addetti, provocato in particolar modo da un insufficiente ricambio generazionale, la feroce concorrenza della grande distribuzione, il commercio elettronico, gli affitti alti e, ovviamente, le troppe tasse nazionali e locali. Inoltre, i consumatori hanno modificato il modo di fare gli acquisti. Da qualche decennio hanno sposato la cultura dell’usa e getta, preferiscono il prodotto fatto in serie e consegnato a domicilio. Nonostante la crisi e i problemi generali dell’artigianato, non sono pochi gli imprenditori di questo settore che da tempo segnalano la difficoltà a trovare personale disposto ad avvicinarsi a questo mondo. Si fatica a reperire nel mercato del lavoro giovani disposti a fare gli autisti, gli autoriparatori, i sarti, i pasticceri, i fornai, i parrucchieri, le estetiste, gli idraulici, gli elettricisti, i manutentori delle caldaie, i tornitori, i fresatori, i verniciatori e i carrozzieri, carpentieri, posatori e lattonieri.
Nell’ultimo decennio hanno registrato la maggiore variazione negativa le province di Vercelli e Teramo (entrambe con il -27,2 per cento), Lucca (-27) Rovigo (- 26,3) e Massa-Carrara (-25,3). Per quanto riguarda le regioni, le flessioni più marcate in termini percentuali hanno interessato il Piemonte, con il -21,4, le Marche (-21,6) e l’Abruzzo (-24,3), mentre in valore assoluto le perdite di più significative si sono avute in Emilia Romagna (-37.172), Veneto (-37.507), Piemonte (-38.150) e Lombardia (-60.412 unità). Sono ormai ridotte al lumicino le botteghe artigiane che ospitano calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e Tv, sarti, tappezzieri, eccetera. Per contro, invece, i settori artigiani che stanno vivendo una fase di espansione sono quelli del benessere e dell’informatica. Nel primo, ad esempio, si registra un costante aumento degli acconciatori, degli estetisti e dei tatuatori; nel secondo, sono in decisa espansione i sistemisti, gli addetti al web marketing, i video maker e gli esperti in social media. Purtroppo, l’aumento di queste attività è insufficiente a compensare il numero delle chiusure presenti nell’artigianato storico, con il risultato che la platea degli artigiani è in costante diminuzione.
Per arrestare la discesa e salvaguardare un settore vitale dell’economia possono aiutare una sensibilizzazione a livello scolastico, maggiori sostegni e minori tasse, facilitare il ritorno delle attività nei centri storici perché le persone cercano sempre un artigiano esperto che le possa aiutare. La Cgia, non esclude che per evitare la desertificazione delle botteghe fra qualche decennio lo Stato dovrà sostenere con finanziamenti diretti coloro che vorranno aprire una attività artigianale o commerciale. Una volta, un padre serio accompagnava il figlio che non voleva studiare da un artigiano pregandolo di insegnargli il mestiere. Stava all’artigiano decidere se e quanto dare all’apprendista a fine della settimana. Oggi non è più così. A parte il fatto che di padri di quella fattezza se ne contano pochi, la prima cosa che un ragazzo chiede è a quanto ammonta la paga, anche se non sa fare niente, e poi vuole il week end libero. Come cambiano i tempi!