NON PUO’ ESSERE IL TROPPO AMORE

La tragedia di Pescara nella quale la piccola Neyda (5 anni) è stata bruciata viva dal padre, morto nello stesso rogo, ha profondamente scosso l’opinione pubblica nazionale e regionale. Un brivido ha pervaso le coscienze di ciascuno di noi. I commenti sono arrivati a iosa, sui giornali, nei talk show televisivi, ma anche nelle discussioni al bar e attorno alle tavole imbandite per l’ora di cena. Tutti a scandagliare i reconditi anfratti della coscienza umana dove verosimilmente si anniderebbero ossessive nevrosi pronte a materializzarsi in tragedie. Oppure a imputare alle pubbliche istituzioni manchevolezze, ritardi e omissioni che costituirebbero il terreno di coltura delle aberranti manifestazioni umane. Tutto vero.

Quando queste cruente vicende si manifestano, gli aspetti che riguardano la psiche devono, senza dubbio, costituire elementi di valutazioni e di analisi. Così come devono essere rimarcati disinteressi e superficiali atteggiamenti delle autorità pubbliche nei confronti di complesse situazioni familiari che non possono trovare soluzione solo nei formalismi della giustizia ordinaria.

C’è un aspetto, però, che non è tenuto in giusta considerazione. Quando appare se ne sta lì, sullo sfondo, quasi a costituire nella sua opacità una nebulosa che occulta le vere ragioni, spesso, delle inesplicabili tragedie umane. È la cultura. Nell’accezione più ampia del termine, ossia quel complesso sistema cognitivo che regola i rapporti interpersonali nei micro-universi culturali: famiglie, parentele, paesi e comunità. È la cultura di cui si è permeati che porta a considerare i figli, e in generale i minori, alla stregua di oggetti da poter usare o trattare come se fossero senza anima e senza personalità. È la struttura culturale che porta a considerare i soggetti deboli (chi non ha possibilità di spezzare le catene della dominazione culturale) come possibile merce di scambio per il soddisfacimento dei bisogni del dominatore. È il sistema delle cognizioni culturali che induce un padre a considerare la figlia come normale estensione del proprio essere e quindi a privarla dell’esistenza quando si vuole sacrificare la propria. Donne e bambini come strumenti e oggetti di contorno  del patriarca.

Qualcuno potrebbe obiettare che quella culturale, invece, è solo sovrastruttura prodotta dai meccanismi che regolano a livello economico i rapporti sociali. Forse. Rimane il fatto, però, che non può essere “il troppo amore” a spingere un padre a togliere la vita alla figlia come estremo sacrificio della propria. Non è solo una turba psichica a indurlo a questa assurda fagocitazione della vita degli altri. Non sono solo le insensibilità istituzionali a favorire tragici comportamenti. Si tratta di concause che insieme con quella culturale formano un mix micidiale.

Sottovalutare gli aspetti culturali di queste tragedie significa perpetuare i cardini sui quali, molto spesso, esse ruotano senza orecchiabili stridori.

L'ECO di San Gabriele
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