Mani perdute

Tre generazioni di “bastai”

Il ricordo di Giulio Gino Di Giacomo, nato a Sante Marie, in provincia di L’Aquila, figlio e nipote di due grandi artigiani di “selle” per muli.

“Ringrazio mio padre per gli insegnamenti che mi ha dato anche con i suoi sguardi e con i suoi silenzi. Mi ha lasciato magici ricordi di profumi che non sento più. Chissà se qualche giovane di oggi possa ‘riconoscersi’ lo stesso in queste piccole emozioni?”. Così Giulio Gino Di Giacomo nativo di Sante Marie, un paese abruzzese di circa mille anime a confine con il Lazio, in provincia di L’Aquila, prova a rileggere – e a conservare – la storia di tre generazioni di bastai. Parliamo, per i più giovani, della “sella” del mulo, definita così dalla Treccani: “Specie di grossa e rozza sella di legno, che si mette sul dorso delle bestie da soma per il trasporto di ceste, bigonci o altro carico”. Suo padre Domenico è stato bastaio a Sante Marie, grazie, a sua volta ai preziosi insegnamenti di suo padre Giulio e di suo nonno Domenicantonio, depositari di conoscenze teoriche e tecniche. I suoi basti arrivavano addirittura in Svizzera, Francia, Austria, oltre che in tutte le regioni italiane, dal Piemonte alla Sicilia. “Erano realizzati su misura, oggi diremmo ergonomici, – ricorda con orgoglio Giulio Gino Di Giacomo – dovevano infatti fasciare perfettamente l’animale affinché il peso portato per ore non causasse fastidio o addirittura danni”. Tra l’altro, a differenza della sella dei cavalli che può anche essere prodotta in serie, ogni basto è diverso dall’altro. “Erano costruiti con materiale d’eccellenza: gli ‘arcioni’ (due per ogni basto) di legno ricurvo in maniera naturale, li sceglieva lui personalmente, scartando quelli poco affidabili. Particolari e personalissime, poi, erano le scelte della tela, della paglia e delle tavole (due per ogni basto), rigorosamente tutte di un pezzo, che piegava personalmente con il fuoco e bagnandole con l’acqua”. Insomma, un lavoro di grande precisione svolto con passione, attenzione e amore. “Le misure – osserva ancora Di Giacomo che oggi vive a Ostia – venivano prese direttamente sull’animale nella sua bottega oppure inviate per posta dai mulattieri più lontani. Ciò che usciva fuori artigianalmente era un magico assemblaggio, dopo aver usato faticosamente l’ascia, fatto i buchi a mano sul duro legno (il trapano elettrico fu inventato solo molto tempo dopo) e usato grossi aghi… Il ‘mmasto’ veniva quasi accarezzato dalle sue grosse mani callose e indurite”. Domenico jo mastaro, così come era conosciuto, ha tracciato un solco indelebile, ha insegnato a tanti la sua arte. Viveva sei mesi a Sante Marie e altri sei a Cappadocia, un piccolo e grazioso borgo marsicano nella Valle del Liri, all’epoca paese di mulattieri. “A distanza di anni – sottolinea ancora Di Giacomo – la piazza di Cappadocia era diventata gialla, si riempieva infatti di taxi perché molti mulattieri nel corso degli anni avevano venduto i loro muli e acquistato le licenze a Roma”. Come dire, il segno del tempo che muta… Proprio a ricordo dei tempi andati, nella piazza di Cappadocia sorge oggi una statua in bronzo del mulo con “jo mmasto” e la legna e a Sante Marie un’altra opera raffigurante il basto.

Un mestiere antico, solitamente tramandato di padre in figlio e quasi del tutto scomparso, ahinoi come tanti altri. Ma sicuramente portatore di valori importanti, come appunto il desiderio di migliorarsi, l’approfondimento delle tecniche, la dignità della fatica e la capacità di trovare sempre delle soluzioni. E perché no, anche di trasmettere sogni…

L'ECO di San Gabriele
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