L’agroalimentare italiano migliora l’autosufficienza ma resta alta la dipendenza da importazioni in filiere chiave. Tra i dieci prodotti, importati, in ordine di quantità troviamo infatti olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro…
Non è tutto oro quello che luccica. Almeno così sembra. Parliamo del tanto sbandierato cibo Made in Italy. L’avviso ai naviganti è presente nel recente Rapporto sull’agroalimentare italiano di Ismea, l’ente pubblico economico che si occupa dei servizi per il mercato agricolo alimentare. In pratica, osservando da vicino i vari indicatori e i singoli comparti dell’interessante studio, i contorni che vengono fuori sono quelli di un bicchiere mezzo vuoto. Oppure mezzo pieno. Scegliete voi… L’agroalimentare italiano, si sottolinea, migliora l’autosufficienza ma resta alta la dipendenza da importazioni in filiere chiave. Un deficit, quest’ultimo, che senza dubbio “macchia” la favola del cibo tricolore motivo da sempre di orgoglio e qualità. Ovviamente senza nulla togliere alle proprietà delle materie prime acquisite altrove. Tanto per rendere meglio l’idea, diamo un’occhiata ai primi dieci prodotti, importati, in ordine di quantità, dal nostro Paese: caffè, olio extravergine d’oliva, mais, bovini vivi, prosciutti e spalle di suini, frumento tenero e duro, fave di soia, olio di palma e panelli di estrazione dell’olio di soia. Il grado di autosufficienza dell’Italia per questi prodotti, osserva il report Ismea, varia dallo 0% nel caso del caffè e dell’olio di palma a oltre il 60% nel caso dei prosciutti, ma sono mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, che presentano le maggiori criticità in termini di approvvigionamento. Per entrambi, le importazioni negli ultimi venti anni sono considerevolmente aumentate, comportando una drastica riduzione del tasso di approvvigionamento (al 46% per il mais e al 32% per la soia nel 2023). Circa poi i Paesi d’origine, per la soia si rileva una forte concentrazione delle forniture dal Brasile (50%), mentre nel caso del mais, pur in presenza di un livello di concentrazione minore, prevalgono gli arrivi dall’Ucraina, un Paese a “rischio” elevato.
Cattive notizie, però, arrivano anche sul fronte dell’approvvigionamento dei frumenti da cui dipende la nostra rinomata industria pastaria, leader mondiale con una produzione pari a 3,7 milioni di tonnellate, di cui 2,1 milioni esportati. Insomma, una protagonista indiscussa che, ahinoi, dipende per il 44% dalle forniture provenienti da Canada, Russia, Grecia e Turchia. Ma non è finita qui. I prodotti da forno, per il 64% del fabbisogno, ricorrono al prodotto di origine ungherese, francese, austriaco, ucraino e romeno.
Che dire, allora? C’è da preoccuparsi? Ci stiamo avvicinando ai titoli di coda di una bella storia tricolore? Tra l’altro la scarsità dell’approvvigionamento delle materie prime nazionali ha tra le cause principali l’impatto dei cambiamenti climatici che, di fatto, disegna un orizzonte ancora più fosco. Soprattutto alla luce dei “deliri” di certi potenti della Terra, e non solo, che continuano a scherzare con il fuoco. Il negazionismo climatico, infatti, è a dir poco sconcertante dinanzi alle tante evidenze schiaccianti che da anni la scienza ci mostra. Per non parlare degli effetti sul nostro benessere, sempre più numerosi ed evidenti, le cui cause hanno origine dai comportamenti sballati del genere umano. È chiaro, dunque, che in questa direzione dovrà esserci un cambio di passo. Il rischio di danni causati alle popolazioni di tutto il mondo, compresi gli ecosistemi marini e terrestri, è più che reale. Non dev’esserci più spazio per una disinformazione figlia di chi insegue un profitto personale.
Naturalmente anche il mondo dell’agricoltura dovrà al più presto trovare nuovi equilibri e la tracciabilità dei prodotti non dovrà essere vista esclusivamente come un aspetto burocratico. Arriveremo a utilizzare solo una quantità marginale di fitofarmaci? Si riuscirà a far rigenerare la terra senza ricorrere a fertilizzanti di sintesi o lavorazioni intensive? E ancora: saremo finalmente disposti a riconoscere il necessario dal superfluo e compiere una redistribuzione di terre e risorse? Per gestire infatti una popolazione mondiale che supera gli otto miliardi è fondamentale perseguire sviluppo ed eguaglianza, contrastando l’incremento della povertà sociale, figlia di una globalizzazione scellerata. Un’inversione a U, insomma, nei confronti dello scempio che vede oggi l’1% della popolazione del pianeta Terra detenere più ricchezza del restante 99%. Come osserva il recente Rapporto Oxfam, attualmente sono 3,5 miliardi i poveri nel mondo e la metà degli individui vive con meno di 7 dollari al giorno. E ancora: i 10 uomini più ricchi al mondo hanno visto aumentare i loro capitali di quasi 100 milioni di dollari al giorno: a ritroso, parliamo di oltre 69.000 dollari al minuto e 1.157 dollari al secondo. Numeri folli che potrebbero rendere meglio l’idea con questo esempio concreto: se per assurdo il 99% dei loro patrimoni “evaporasse” da un giorno all’altro, rimarrebbero comunque miliardari… Sia chiaro: nessuna intenzione di condannare i ricchi, non lo fa neanche il Vangelo, semmai l’idolatria della ricchezza. Ricordiamoci sempre le illuminanti parole di papa Francesco: “Quando la fede non arriva alle tasche, non è una fede genuina”.
Queste e altre tematiche abbiamo scelto di approfondire con un giovane figlio del Sud. Francesco Lucà, siciliano, è dottore in Scienze e Tecnologie alimentari nonché studente in Biotecnologie agrarie con una passione per la nutrizione, l’agronomia e l’economia. Collabora con l’associazione Liberi Oltre, con l’obiettivo di divulgare conoscenze scientifiche accessibili sulla sostenibilità alimentare, ambientale e scelte nutrizionali consapevoli. Francesco, nativo di Catania, ha tanta strada da percorrere e idee ben chiare. Vediamo cosa ha da dirci.
Prodotti “Made in Italy”: è vera gloria Francesco?
Il “Made in Italy” è associato a diverse credenze popolari che riguardano la qualità dei prodotti italiani. Questo concetto si estende anche alla cucina tradizionale italiana, che è ampiamente apprezzata in tutto il mondo. Credenza comune sui prodotti italiani e su una qualità superiore in quanto artigianali e lontani dalle logiche produttive intensive.
Invece?
Non c’è alcun motivo per pensare che un prodotto sia migliore di un altro solo perché il processo produttivo avviene in una determinata zona, o perché i processi produttivi sono legati a una tradizione che risulta spesso antiquata, anche dinanzi all’evidenza che i prodotti industriali siano assolutamente sicuri e salutari. Dobbiamo intenderci sulla definizione di qualità di un prodotto. In linea generale possiamo pensarlo come sinonimo di sicurezza igienico-sanitaria o di salubrità. Un discorso a parte, invece, andrebbe fatto se parliamo di “qualità” intesa come proprietà organolettiche di un prodotto. In quel caso sarebbe opportuno valutare il singolo prodotto e non fare di tutta l’erba un fascio.
Quali sono gli aspetti che fanno la differenza?
Per quanto riguarda la sicurezza alimentare incide principalmente il rispetto delle norme Haccp all’interno della produzione. Parliamo di un sistema che permette un monitoraggio costante di tutte le fasi di manipolazione degli alimenti in cui vi sia un rischio, anche solo probabile, di contaminazione. Per la qualità organolettica, invece, entrano in gioco diversi fattori, come ad esempio la presenza di sostanze aromatiche, i metodi di conservazione, il terreno da dove viene la materia prima, l’alimentazione dell’animale, eccetera.
I cosiddetti marchi di tipicità sono sempre e comunque una garanzia?
Diciamo intanto che sono molteplici, i più conosciuti sono sicuramente Dop (Denominazione di origine protetta) e Igp (indicazione geografica protetta), tuttavia i disciplinari risultano molto diversi. Ad esempio, per quanto riguarda la denominazione Igp basta che una sola fase della produzione avvenga nell’area geografica indicata.
Il pistacchio di Bronte Igp, ad esempio, spesso viene prodotto con pistacchi provenienti da altri, Paesi come l’Iran…
Nell’ultimo rapporto Ismea sull’agroalimentare italiano si parla di un’agricoltura deficitaria di alcuni prodotti…
In effetti le esportazioni italiane hanno un valore di 47 miliardi di euro, ma le importazioni ammontano a poco più di 48,6 miliardi di euro. La maggior parte dei prodotti che esportiamo è lavorata, come ad esempio nel caso della pasta, per cui siamo famosi in tutto il mondo. Questi dati peggiorano se andiamo a vedere la filiera zootecnica da cui escono tra i prodotti tipici più importanti in Italia (prosciutto, parmigiano, eccetera) in quanto l’alimentazione animale dipende strettamente dall’import di materie prime estere. Secondi i dati Istat, nel 2023 il volume della produzione è diminuito (-1,4%) e le unità di lavoro (-4,9%). In calo risultano anche i volumi delle coltivazioni (-2,4%), l’attività dei servizi agricoli (-2%) nella zootecnia (-0,8%). In flessione soprattutto i comparti di vino (-9,5%), patate (-6,8%), frutta (-5,3%) e olio d’oliva (-5%).
A proposito dell’approvvigionamento di mais e soia, ingredienti di base dell’alimentazione zootecnica, che numeri abbiamo?
Nell’anno 23-24 abbiamo importato 6,7 milioni di tonnellate di mais secondo l’Istat, con un prezzo medio di 190 euro a tonnellata, che significa 1,3 miliardi di euro, unito al costo di import della soia pari a 4 miliardi di euro significa che l’import di queste materie prime è pari al 138% del valore dell’export di prodotti tipici Dop, Igp e Stg, al 92% dell’intero export di prodotti tipici e 56% del valore export di prodotti tipici di origine zootecnica. È facile quindi dedurre come senza il commercio con altre nazioni, non sarebbe possibile, nemmeno lontanamente, produrre in quantità i cosiddetti prodotti “tipici”.
Importiamo anche i frumenti per la nostra pasta così famosa nel mondo…
Molto del grano utilizzato viene im-portato da altri Paesi europei come la Francia o (anche se in minor parte) da Paesi extra europei come il Canada. Molta della pasta prodotta contiene al suo interno anche grani provenienti dall’estero.
A suo avviso quali sono le cause principali?
L’agricoltura italiana (ma anche Europea) è spesso succube di un approccio di stampo ideologico piuttosto che tecnico scientifico, cosa che ha portato negli ultimi anni a una riduzione costante delle tonnellate di cibo prodotto, a fronte però di un aumento degli ettari di terreno utilizzati per l’agricoltura e in particolare per l’agricoltura biologica.
Che dire dell’olio extravergine di oliva, dove le forniture provenienti dagli altri Paesi del bacino Mediterraneo, in primis la Spagna, sfiorano il 50% del nostro fabbisogno? È giusto parlare del crollo di un mito?
L’olio d’oliva ha origini palestinesi, ma è in Spagna che ha raggiunto la sua massima diffusione. Fin dall’antichità l’olio si è distinto sia per la varietà di ulivo che fornisce il frutto da spremere, sia per l’oliva al momento della raccolta e della spremitura. I Romani furono grandi studiosi e consumatori dell’olio. Il progressivo miglioramento dei trasporti, delle tecniche di imbottigliamento e di conservazione dell’olio ha permesso all’alimento di diffondersi sempre di più, ma sottolineiamo che l’olio prodotto direttamente in Italia rappresenta una percentuale limitata rispetto alle aziende mediterranee del settore.
In questi casi la “colpa” è sempre del clima oppure esistono altri fattori?
Non si può dire che la colpa sia esclusivamente del clima. Anche le tecniche di coltivazione, la scelta delle varietà, gli investimenti in tecnologia e ricerca, la gestione delle risorse idriche e le politiche agricole giocano un ruolo fondamentale nella produzione dell’olio extravergine.
Sul fronte della sicurezza delle materie prime importate come siamo messi. Quali sono le criticità?
In Europa è presente un ente l’Efsa (European Food Safety Authority), con sede a Parma, che garantisce la sicurezza dei prodotti. Ogni prodotto deve sottostare alle soglie decise dall’Unione Europea per essere commercializzato e i risultati ottenuti dalle indagini statistiche in termini di sicurezza alimentare sono rassicuranti. Nel corso degli anni sempre meno prodotti (qualunque sia l’origine) vengono trovati con cariche batteriche, residui di fitofarmaci o antibiotici al di sopra della soglia di sicurezza.
Si dice che il peso dell’agricoltura italiana sul Prodotto interno lordo sia del 30%. È così per tutti gli indicatori di settore?
Diverse associazioni e politici “nostrani” hanno affermato che l’agricoltura italiana incide per il 30% sul Pil nazionale; la realtà risulta essere più sfumata di così. I calcoli Istat, nfatti, indicano che la quota del settore agroalimentare sul Pil è del 3,8% (circa 70 miliardi di euro) nel 2022. La discrepanza deriva da una definizione generosa di Coldiretti che include ristoranti e vendite al dettaglio nel settore agroalimentare. Va detto però che anche il Crea (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) sottolinea che considerando l’intero sistema agroalimentare, dalla produzione primaria al commercio al dettaglio, l’incidenza è del 15%, valore molto più alto rispetto a quello citato prima, ma comunque la metà di quello che è stato ostentato.
Come giudica la qualità dei controlli e delle normative europee nell’agroalimentare?
In termini di sicurezza alimentare l’Unione Europea ha tra le norme più stringenti in assoluto. Ogni prodotto alimentare che entra nel suolo europeo deve rientrare nei parametri qualitativi imposti dall’UE per essere commercializzato. Inoltre, tracciabilità e rintracciabilità sono dei temi molto caldi all’interno del Parlamento europeo.
È vero che molti prodotti Made in Italy famosi nel mondo in realtà hanno molto poco di italiano sia nei processi produttivi, sia nella loro origine?
Sì, molti in realtà hanno molto poco del tricolore.
Ci fa qualche esempio?
Il pomodoro di Pachino Igp. È uno dei pochi alimenti di cui possiamo identificare luogo e data di nascita, ovvero Israele 1989, presso aziende specializzate nel settore delle ricerche genetiche in campo agricolo. Il pomodoro non è Ogm, ma Mas (Marker-assisted selection) in cui non viene modificato geneticamente; al contrario, si effettuano incroci e ibridazioni per creare specifiche caratteristiche fisiche, di gusto, resistenza o capacità di crescita. Il problema è che i semi provenienti dai frutti coltivati non sono in grado di mantenere le caratteristiche originali, e ogni anno i produttori devono acquistare nuovi semi. Questo assicura che i pomodori mantengano le loro qualità distintive tutto l’anno.
Altri alimenti?
Il parmigiano. Nel 1938 fu costituito il primo consorzio che protegge la qualità del formaggio. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo, molte persone emigrarono in America e portarono con sé le conoscenze, così che negli anni 30 nacquero in Wisconsin diversi caseifici i cui proprietari avevano nomi padani e misero sul mercato il formaggio Parmesan per ricordare la propria terra. Quindi, il parmigiano e il Parmesan sono uguali a livello della preparazione, cambiano solo le materie prime. Un’efficace politica di marketing, che esaltava la natura, la tradizione, i valori nutrizionali e il gusto, resero in poco tempo il Parmigiano e il Grana i due prodotti tipici italiani di maggiore successo nel mondo.
Per quanto concerne l’olio extravergine d’oliva, invece, era consuetudine fare una miscela di oli per ottenere un prodotto standardizzato adatto a tutti. Tra il secondo dopoguerra e gli anni ottanta, i piccoli fornitori lavoravano l’olio con tecniche poco affidabili e le industrie, dopo averlo acquistato da loro, lo correggevano chimicamente. Alla fine degli anni ottanta, la politica agricola europea cambiò e per chi produceva l’olio d’oliva erano previste agevolazioni che consentivano di mantenere prezzi bassi sul mercato. Con il calo dei sussidi si rischiò di far sparire il settore dell’olivicoltura, importantissimo soprattutto nel Centro-Sud. Per evitare ciò, le denominazioni e i marchi di tutela cercarono di salvare i prodotti legandoli ai territori di origine, da cui nacque il Made in Italy. La qualità dell’olio deriva però direttamente dalle competenze e dall’impegno del produttore
Del grano, invece, che dire?
Il grano duro Senatore Cappelli, ideato da Nazareno Strampelli, è stato ampiamente impiegato per la produzione della pasta. L’obiettivo di Strampelli era migliorare la produttività delle varietà di grano tenero, dando vita al grano Ardito. Il grano deriva da incroci di varietà provenienti principalmente dalla Tunisia. Dopo la morte di Strampelli e la fine della Seconda Guerra Mondiale, le radiazioni furono utilizzate per modificare geneticamente le varietà di grano, dando vita al celebre grano Creso. Quindi attualmente il grano duro utilizzato per la pasta è frutto della manipolazione genetica e deriva da un grano africano. Nel corso degli ultimi 30 anni, i pastifici italiani hanno guadagnato fama internazionale per la qualità dei loro prodotti, basata proprio su questi grani.
Qual è la strada giusta da seguire per la crescita e la diffusione nel mondo dei prodotti italiani?
Penso che la chiave di tutto risieda nell’innovazione. La continuità familiare nella gestione, la trasmissione dei valori industriali e la cura per la qualità del prodotto a mio avviso ono maggiormente garantite dall’industria rispetto alla produzione artigianale, come, ad esempio, la Nutella messa sul mercato nel 1964. Essa è diventata simbolo di modernità e ricchezza in un’Italia che voleva lasciarsi alle spalle anni di fame e sofferenza. Il messaggio trasmesso era di un Paese moderno e industriale, ma che sapeva comunque inventare e realizzare prodotti con cura artigianale.
Quindi il mito gastronomico dell’Italia deve molto all’industria alimentare…
Proprio così, soprattutto negli anni del boom economico, quando il Paese voleva proiettare all’esterno un’immagine di modernità e capacità di innovazione, cosa che riuscì a trasmettere l’industria agroalimentare. Ora l’industria cerca di costruire un’immagine fittizia di tradizione e artigianalità.
Tipo?
Il Motta e la Coppa del Nonno, ad esempio, divennero i due gelati che identificavano il mito del gelato italiano nel mondo e grazie al loro packaging così originale che fu impossibile imitarli. L’espansione delle gelaterie tradizionali deve soprattutto al successo dei gelati confezionati tra gli anni cinquanta e sessanta.
I Baci Perugina sono un prodotto di grande successo fin dagli anni trenta. L’unico legame della città con il cioccolato era la fabbrica della famiglia Buitoni che creò le condizioni per la nascita di altre imprese nel settore. A Perugia si tengono molte fiere e festival internazionali del cioccolato, ma è l’industria che ha creato questa immagine della città, non l’artigianato. La capacità di innovare e proiettare un’immagine di modernità è stata quindi fondamentale per la crescita e la diffusione internazionale dei prodotti italiani e lo sarà anche in futuro.
Tempo fa The Economist, uno dei settimanali inglesi più famosi nel mondo dell’economia, scrisse che se in una pizza si possono vedere molti dei mali d’Italia, si può anche scorgere la sua salvezza: “I pomodori arrivano dal Nuovo Mondo, la mozzarella viene fatta con il latte di bufala, un animale dell’Asia portato in Italia durante le invasioni barbariche, il basilico arriva dall’India. E sono stati i migranti a portare la pizza di là dell’oceano, negli Stati Uniti. Il genio italiano si trova nell’inventiva e nell’adattabilità, non in un’immaginaria tradizione canonizzata dalle leggi dello stato”. Che ne pensa?
Mi trovo assolutamente d’accordo, anche la pizza al tempo fu una invenzione innovativa. La forza dell’Italia non risiede in un’idea statica di tradizione, ma nella capacità di reinventarsi, di abbracciare il nuovo e di fondere culture diverse per creare qualcosa di unico.
A livello di aziende vinicole che quadro viene fuori?
Sono le più performanti del settore agroalimentare, il principale introito economico del settore viene proprio dalla produzione di vino, in cui siamo probabilmente i migliori in Europa.
Le biotecnologie, invece, che ruolo possono avere nella lotta alla fame nel mondo?
Globalmente il consumo di cibo è aumentato, soprattutto in Paesi come Asia e Africa. Nonostante ciò la malnutrizione persiste, è uno dei più gravi problemi di salute pubblica a livello globale, con conseguenze devastanti per individui, famiglie e intere comunità. In questo contesto le biotecnologie (sia di vecchia che nuova generazione come Ogm e Tea) potrebbero essere un ottimo strumento per riuscire ad aumentare la produttività del sistema agroalimentare globale (a parità di ettari utilizzati), anche in condizioni ambientali avverse e contribuendo anche alla riduzione di carenze alimentari specifiche laddove necessario esistono molti contributi virtuosi nell’utilizzo delle biotecnologie.
Ad esempio?
Un gruppo di ricercatori delle università di Ginevra, ETH Zurigo e National Chung Hsing di Taiwan ha sviluppato una varietà di riso biofortificato con livelli significativamente aumentati di vitamina B1 (tiamina). Questo riso biofortificato mira a contrastare le carenze di vitamina B1, particolarmente diffuse nelle regioni dove il riso è un alimento base. In Mozambico, invece, un intervento basato sull’introduzione di patate dolci arricchite con beta-carotene (un precursore della vitamina A) ha significativamente aumentato l’apporto di vitamina A e le concentrazioni di retinolo sierico nei bambini. Il Golden Rice è una varietà di riso geneticamente modificato (in maniera similare alle patate dolci sopracitate) progettata per combattere la carenza di vitamina A, una piaga che colpisce milioni di persone in alcune zone dell’Asia. Quest’ultimo è diventato famoso a livello globale grazie alla sua potenziale capacità di salvare vite umane e migliorare la nutrizione in aree dove il riso è l’alimento principale. Il Golden Rice rappresenta un esempio significativo di come la biotecnologia possa essere utilizzata per affrontare problemi di Food Security.
Nel caso in cui qualcuno avesse paura per la propria salute, l’Efsa ha dichiarato gli Ogm sicuri e l’Ipcc in merito alle nuove tecniche genomiche ha affermato che “le tecniche di Genome editing risultano fondamentali per ottenere colture adattabili ai cambiamenti climatici”.
Capitolo carne: cosa dire?
Un europeo medio mangia 80 kg di carne all’anno. Se tutto questo provenisse dalla carne di pollo, dovrebbero essere uccisi circa 40 polli a persona, risultando inoltre molto lontano dalle linee guida per una sana alimentazione pubblicate dal Crea, in quanto il suo consumo andrebbe limitato, in conformità alle linee guida, a 100 grammi a settimana, equivalenti a 5.2 kg l’anno. Un dato che andrebbe ulteriormente ridimensionato per le carni trasformate, quali gli insaccati, la cui porzione da 50 grammi è da intendersi come da consumarsi solo occasionalmente. Inoltre, in questo contesto si colloca pure la questione ambientale. È opinione diffusa che la dieta migliore per l’ambiente risulti essere anche la dieta migliore per garantire il benessere e la salute degli animali; tuttavia, questi due obiettivi sono in realtà spesso in conflitto. Gli allevamenti intensivi sono spesso migliori dal punto di vista ambientale, ma non dal punto di vista del benessere animale. Inoltre gli allevamenti di bovini, ad esempio, sono quelli che garantiscono più benessere per l’animale, al contrario di quelli avicoli, ma risultano anche i più inquinanti.