MAESTRO VETRAIO E DI VITA

Moulaye Niang è diventato il primo mastro vetraio africano, riconosciuto dai colleghi veneziani, rinomati per la “gelosia” professionale… “Per comprendere l’altro osserva l’artigiano senegalese – dobbiamo prima imparare a conoscere noi stessi”

è una bella storia. Una di quelle che fanno bene all’anima. E che riconciliano con il mondo, anche se spesso i suoi abitanti, non tutti ovviamente, mostrano un cuore duro e privo di amore. Tutto ha inizio a Casamance, un villaggio nel sud del Senegal, dove Moulaye Niang apre gli occhi alla vita. La traballante economia di quella regione, dove la foresta esplode in maniera straordinaria in una natura incontaminata, si regge con la coltivazione del riso e di turismo. Il piccolo Moulaye viene adottato da una famiglia agiata di Dakar e da quel momento per lui si apre un nuovo mondo. Entra in contatto con l’arte, la lettura, la musica, la condivisione. Si fa tutto in famiglia, dalla quale assorbe il senso di identità e appartenenza, ma anche di differenziazione. Cioè la conquista della propria autonomia, essere se stessi seguendo le proprie inclinazioni e un progetto di vita.

Come ci racconterà Moulaye, il lavoro dei genitori lo porta ad avere la valigia sempre pronta, tante le esperienze, alcune delusioni. Poi la svolta inaspettata. L’incontro con Venezia appoggiata sul mare…, come canta Guccini. In breve, con grande caparbietà e un carattere di quelli che non si dimenticano, si mette in mente che ad assicurare il pane a lui e a una futura famiglia dovrà essere la lavorazione del vetro. Ma ce lo vedete un giovane senegalese seduto sullo scagno, la sedia tipica dei mastri vetrai di Murano, conosciuti tra l’altro per la loro rinomata gelosia professionale? Un’impresa impossibile. O quasi, visto che Moulaye Niang è diventato il primo maestro vetraio africano, riconosciuto appunto dai maestri veneziani. Ha chiamato Muranero il suo negozio-laboratorio situato a Venezia in Salizada del Pignater e anche il sito dove propone e vende le creazioni sue e di sua moglie. Moulaye suona anche la batteria in una band esibendosi nei locali di Venezia e anche lontano dalla laguna.

Il resto, ora, ce lo facciamo raccontare da lui. Prima, però, credo sia giusto sottolineare, ancora una volta la bellezza e l’importanza di una storia di accoglienza e integrazione che dovrebbe far riflettere tutti noi sull’importanza della diversità, dell’inclusione e del rispetto dell’altro. Occorre abbattere ogni pregiudizio sociale, combattere e condannare con durezza ogni forma di razzismo. E in questa direzione un ruolo essenziale spetta alle famiglie e alla scuola. Un nuovo modello culturale e di vita che trasformi ogni “straniero” in un nostro fratello.

Ora, però, entriamo nella bottega del primo maestro vetraio africano…

Ciao Moulaye, ti presenti brevemente?

Diciamo che sono un mix tra l’artigianato e l’arte. In pratica viaggio su due piani. Nel mio laboratorio sono artigiano perché mi occupo della bellezza che vede l’occhio. L’artista, invece, è quello che rimuove le emozioni. Quindi quando suono i miei strumenti sono un artista…

Riavvolgiamo il nastro e partiamo dalla tua Africa. La tua era una famiglia agiata…

Era una famiglia benestante, però io sono stato adottato… Sono rimasto in Senegal sino all’età di sei anni, anche se i miei genitori facevano avanti e indietro… Mia madre, ad esempio, frequentava tutte le fiere d’Europa, lavorava i tessuti e realizzava bambole africane. Mio padre, invece, era orafo; entrambi avevano come base il Senegal ma giravano il mondo. Tra l’altro il mio papà era nato in Francia ma subito dopo si era stabilito in Senegal. Io, dunque, non mi sento né africano né europeo, mi definirei un cittadino del mondo.

Dove hai studiato?

Un po’ in Senegal e un po’ in Francia. Dall’età di vent’anni, poi, sono rimasto fisso a Parigi e a ventiquattro sono arrivato a Venezia.

Cosa ricordi dell’esperienza parigina?

Non mi piace molto ricordarla, non è stato un bel periodo. Preferisco focalizzarmi sul bello, ad esempio parlare della foresta africana, delle vacanze in Senegal oppure della mia esperienza qui a Venezia….

Ci arriviamo… Ma alla base di questo ricordo non gradevole c’è un episodio in particolare oppure era tutto l’ambiente che non ti piaceva?

È un malessere generale, secondo me le esperienze negative non meritano di essere raccontate.

L’offerta culturale com’era?

Sono sempre attirato dalla cultura e dalle possibilità interessanti che una città esprime. Peccato però che la ricchezza culturale presente in quel Paese venga utilizzata dalla politica contro gli stessi immigrati.

A cosa ti riferisci?

Tutte le culture esprimono valori importanti, però se ascolti la tv o leggi i giornali ti accorgi che il mondo della politica mette i nativi francesi contro gli immigrati. Questa cosa non mi è mai andata bene… A loro interessa solo la ricchezza che uno “straniero” può portare in quel Paese. Qui a Venezia, ad esempio, attraverso il mio lavoro esprimo l’Africa ed è, a mio avviso, un arricchimento per tutti. Ognuno di noi arriva con un bagaglio culturale che non può assolutamente essere manipolato dalla politica.

Ricordi un aneddoto particolare?

A dieci anni, in un museo che espone circa 4 mila pezzi dell’Africa, chiesi di parlare con il direttore. Domandai cosa contenesse e la sua risposta fu “tutto il lavoro dei tuoi antenati”. Ritiene giusto allora, aggiunsi, che io debba pagare il biglietto d’ingresso per vedere la storia del mio Paese? Ero in visita con i miei genitori e loro stessi, come il direttore del museo, restarono meravigliati dalle mie parole.

Cosa rispose il direttore?

Con grande imbarazzo mi disse che era d’accordo con me, ma la realtà era quella… Tra l’altro la gran parte degli oggetti esposti riguarda i trofei di guerra. Sono andati in una terra straniera a combattere la popolazione e a rubare cose che non gli appartenevano. E poi i loro discendenti devono pagare per vedere il tutto… Capisci perché quello non era un luogo per me?

Da Parigi come sei arrivato a Venezia?

A 15 anni sono venuto in gita scolastica e ho scoperto questo luogo meraviglioso… Una città lenta, proprio come i ritmi della mia Africa. Poi passeggiando tra le calle ho visto la bottega di un famoso mastro vetraio, Vittorio Costantini, dove realizzava animaletti e insetti che sembravano veri. Sono rimasto folgorato, gli dissi che avrei voluto fare quel mestiere…

E lui?

Mi sconsigliò, aggiunse che era un mondo ostile… Gli chiesi allora se era del luogo e nel rispondermi di sì disse che a suo tempo era stato maltrattato e aveva dovuto imparare il mestiere da solo perché non gli era possibile neanche studiare a Murano. D’altra parte Murano è stata sempre chiusa, sin dai tempi della Serenissima. Un maestro per uscire da Murano aveva bisogno di un permesso in quanto le perle erano il tesoro della Repubblica. Il commercio con l’Inghilterra, l’America e anche con l’Africa riguardava le perle di vetro… Era quindi un bene prezioso da proteggere ed è così anche oggi. Diciamo che inconsciamente si distruggono proteggendosi….

Un esempio?

Nel 2005, noi studenti, terminata la scuola, avevamo preparato un documento esponendo ai muranesi il nostro punto di vista. Nella nostra epoca, sottolineavo, Murano dovrebbe avere delle aule di vetro in tutte le università italiane, inoltre dovrebbe prevedere dei corsi di marketing e designer in modo da vivere l’epoca attuale, garantendosi il futuro. Lavorare in segretezza come una volta, significa non avere futuro. A Murano, però, sembra non interessi…

Quanti anni sei restato a Venezia in attesa che si aprisse una porta…?

Due anni. Ho fatto quello che da noi si chiama iniziazione.

Cioè?

Noi abbiamo una cultura molto forte, perché si lavora tanto sulla personalità dei singoli: chi sei e chi sono gli altri. Per dirla in breve noi andiamo in mezzo alla foresta a fare la circoncisione e lì t’insegnano la saggezza, l’osservazione, il modo di guardarti dentro e di guardare fuori per capire e vedere cosa succede. Dopo che hai superato quella formazione capisci chi sono gli altri. Ad esempio il nostro maestro dice che nessuno deve controllare le tue emozioni, chiunque esso sia. Le emozioni sono le tue e il tuo bagaglio è la cosa più importante.

Ma come si fa a nascondere le proprie emozioni?

Imparando a non rispondere in modo negativo. Devi imparare a capire gli altri. Ad esempio se ti trovi davanti a un ubriaco che ti insulta e ti grida in faccia, tu devi capire che è l’alcol la causa di quel comportamento, di conseguenza devi comprendere e non reagire. Se ti trovi dinanzi a una persona con problemi mentali che ha un comportamento sbagliato, devi capire che non è lui ma la sua malattia a causare il tutto. Quindi se dinanzi hai una persona “disturbata” per vari motivi, non devi far altro che restare tranquillo e tenerti dentro le tue le emozioni. Io ho fatto così per integrarmi a Murano.

Come hai vissuto in Italia prima di diventare un maestro vetraio?

Ho un carattere forte, sono un guerriero… All’inizio ho pulito i bagni pubblici per vivere e per pagarmi la stanza riservata agli studenti. Nel frattempo facevo avanti e indietro da Murano affinché qualcuno potesse accettarmi e darmi una possibilità di lavoro. Finché un giorno ho incontrato una ragazza che, guarda la casualità o il destino, si chiamava Perla. Mi ha portato da sua mamma, Laura Mantovan, che mi ha dato tutto il materiale dicendomi che avrei potuto pagarla quando potevo… Poi mi fece conoscere suo zio, Davide Salvadore, uno dei maestri più famosi e conosciuti che è diventato il mio maestro. A sua volta mi presentò un altro maestro che oggi non c’è più, Pino Signoretto. Queste due figure sono state per me fondamentali, mi hanno introdotto e accompagnato verso questo mestiere che amo tantissimo.

Che scuola hai frequentato a Murano?

La scuola del vetro Abate Zanetti, l’unica italiana per questo tipo di lavoro. Ci sono lezioni di teoria e poi la pratica da svolgere presso il laboratorio di un maestro che ti segue.

Sei stato mai vittima di pregiudizi sociali o atti di razzismo?

Ero abituato sin da bambino, quando vivevo a Parigi, a convivere con le varie differenze… Ma anche nel mio Paese c’erano differenze, infatti la gente spesso dimentica che l’Africa è la più grande terra di migrazione. In Senegal siamo 18 milioni di abitanti e ben 10 milioni vengono da fuori… I loro genitori o i loro nonni arrivano da un altro paese. Ad esempio ci sono circa 2 milioni di capoverdiani, altri 4 milioni arrivano dalla Guinea Bissau e 3 dall’altra Guinea Conakry, e poi ancora gente che arriva dal Mali. Più o meno è come qui, l’Italia ha conosciuto cinque secoli di occupazione, chi sono quindi gli italiani? Tutto il mondo funziona così, però la gente viene ingannata dal colore della pelle e dalla lingua che parla. È questo che ci unisce, ma in realtà la diversità è palese. Per tornare alla tua domanda, la risposta è sì. Il pregiudizio, per me, nasce dall’ignoranza. Chi infatti adotta certi comportamenti è lui stesso uno straniero…

Quanto è stato duro diventare il primo maestro vetraio straniero?

Non è stata una cosa facile, anche perché Murano funziona per codici…

Cioè?

Mi è stato dato il titolo di maestro, ma a mio avviso non lo merito…

Perché?

La persona meno brava di Murano a lavorare il vetro vale più di me. Loro nascono e crescono dentro le fabbriche, i bambini giocano all’interno, conoscono il nome di tutti gli attrezzi prima di toccarli. E in questo lavoro il 50% della conoscenza è memorizzare i nomi, rappresentano la porta della conoscenza. Dal momento, quindi, che conoscono tutti i nomi degli attrezzi, in muranese e non veneziano, si trovano due passi avanti… La verità è che hanno riconosciuto il mio grande amore nei confronti della lavorazione del vetro, non certo le mie competenze. Io realizzo oggetti di design, lavoro le perle, faccio tante cose però non mi sento al loro livello. Hanno un qualcosa in più che non si può acquisire…

Il tuo amore per la perla come nasce?

È stato un amore a prima vista, anche se mio padre vendeva anche le perle, pure quelle di Murano con le quali giocavo. Era solo un divertimento, non pensavo di fare questo mestiere. Una volta a Venezia, però, quando ho visto dal vivo la lavorazione mi è scattato dentro un qualcosa di inspiegabile. Un amore profondo, una voglia incredibile di realizzarle.

E il soprannome Muranero?

I miei amici mi prendevano in giro, soprattutto uno di Vipiteno, Bob Alemanno, quando mi incontrava diceva: “ciao muranero, come va?”. D’altra parte ero il primo nero che lavorava il vetro a Murano… Quel soprannome l’ho trovato molto carino, tanto che ho chiamato così il mio negozio.

Oltre al negozio hai anche un sito per far conoscere e vendere i gioelli…

Certo. È possibile visionare ed eventualmente acquistare anche attraverso il sito muranero (https://collectionmuranero.art).

Prima accennavi al fatto che Venezia è una città lenta come la tua Africa… Ci spieghi le somiglianze?

Ci sono molte cose in comune. Io sono nato a Dakar ma i miei nonni sono del sud e lì la vita scorre molto lentamente, come a Venezia. In Africa vedevo l’acqua dell’oceano Atlantico, qui l’Adriatico; lì ascoltavo il suono degli animali della foresta, qui quello degli animali domestici e delle campane; in Senegal vedevo la luce e l’apertura del cielo, stessa cosa qui dove non ci sono grattacieli. E poi è come un villaggio, ci conosciamo tutti. Qui camminiamo, non ci sono automobili, quindi ci incontriamo e ci salutiamo per nome ogni giorno. Facciamo la spesa negli stessi posti, portiamo i nostri bimbi nelle stesse scuole. Anche i vaporetti hanno un ritmo lento. E che dire della lavorazione del vetro? È pacata, proprio come quella degli artigiani della mia Africa…

Come hai conosciuto tua moglie Alice Busato?

Nell’ambito della musica, lei organizzava dei concerti e siccome suono con una band di amici, ci siamo visti a un concerto. Lavora con me, con il design, le collane. È originaria di Mirano, a venti minuti da qui, ma è cresciuta e ha studiato a Venezia. Siamo sposati da sette anni e ho due figlie, Fatu e Mariem di 4 e 2 anni. Fatu significa Fatima e in Senegal è un nome molto comune. Mariem, invece, è l’equivalente di Maria.

Torni spesso in Senegal?

È un po’ che non ci vado, dal tempo del Covid. Purtroppo la pandemia ci ha resi poveri, 2/3 anni di risparmi sono volati via. Anche se non lavori devi pagare affitto, bollette, eccetera, questo ci ha messi in ginocchio. Adesso, poi, non sono più solo, siamo in quattro, quindi muoversi non è economicamente facile… Comunque arriverà il momento in cui torneremo a far visita all’Africa.

Lì hai organizzato una scuola dove insegni a lavorare il vetro…

Non proprio una scuola, ho una classe di dodici alunni. Nel 2010 abbiamo fatto un progetto insieme al Comune di Venezia e Murano Consorzio per insegnare questo tipo di lavoro in un orfanotrofio. Arrivati a 14 anni, infatti, gli orfani non sanno più cosa fare, non hanno la possibilità di pagarsi l’università. L’unico modo per dar loro una mano, dunque, è insegnarli questo mestiere per poi permettersi gli studi.

Dunque non sei geloso del tuo sapere…

Assolutamente no, per me non ha senso. Ne ho parlato anche con i muranesi, insegnare un mestiere non significa replicare fedelmente l’arte e la maestria di ognuno. Chi ha ricevuto gli insegnamenti quando realizzerà una perla, una collana o altre cose ci metterà del suo, quindi il risultato finale sarà completamente diverso da quello di un altro. Essere gelosi della professione non ha senso, non bisogna nasconderla bensì condividerla in modo da assicurare lunga vita a questo mestiere. Nel mio laboratorio, ogni settimana, attraverso tre piattaforme (B&B, Venezia Autentica e Vivo Venezia) arriva gente da tutto il mondo. È una cosa meravigliosa, la cosa più bella che mi ha dato Venezia. Arriva gente dall’Inghilterra, dall’America, dall’Australia, eccetera. Chi sceglie di cimentarsi nella cucina italiana, chi nella realizzazione di maschere, chi nella lavorazione del vetro. In pratica scelgono il corso da seguire e la durata; c’è chi resta solo poche ore e chi invece una settimana o anche più.

Svolgi anche il ruolo di docente?

Me lo hanno chiesto ma non mi è possibile in quanto con la famiglia da accudire, la mia attività e la band non mi resta altro tempo.

I tuoi lavori sono ispirati tutti all’Africa?

Direi di no, l’unico africano in famiglia sono io… Come dicevo prima mi sento cittadino del mondo, e comunque dipende dai periodi. Nel mio primo periodo a Venezia tutti i lavori erano legati al ricordo dell’Africa e ai viaggi che facevo. Poi, visitando altri paesi, come ad esempio la Moldavia (Chisinau), dove ero andato per un festival Jazz, mi mescolo tra la gente, osservo i loro colori, le loro abitazioni. Insomma, un diverso modo di vivere che ha ispirato i miei lavori.

Cosa sono le perle di ritorno?

È un’idea del regista Franco Basaglia, un omonimo del noto medico che chiuse i “manicomi”. Diceva che un senegalese che arriva a Venezia, impara a fare le perle e poi se ne ritorna in Africa. Ciò è un riappropriarsi di una parte della propria cultura.

Qual è la risposta del Senegal nei confronti di questo mestiere?

È positiva, però c’è il problema del costo dei materiali, non c’è una tradizione dell’utilizzo del vetro.

Eppure l’Africa nel sottosuolo custodisce un tipo di silicio tra i più pregiati al mondo…

Vero, ma resta nel sottosuolo. Solamente nel Congo hanno realizzato un’azienda che vende il silicio alle multinazionali. Da noi, invece, nonostante la presenza del silicio nel Nord del Senegal, che è di alta qualità, non si è sviluppata alcuna industria e quindi il commercio.

Il motivo?

È una questione politica. Noi abbiamo il silicio di migliore qualità insieme a quello del Giappone, molto meglio di quello del Congo. I maestri e le aziende di Murano e di Venezia erano disposti ad andare in Africa e mettere in piedi una collaborazione per l’estrazione e quindi l’utilizzo del silicio. Loro, però, volevano che si parlasse bene dei governanti di quella regione di quel Paese. Ora quel governo è caduto e al suo posto ce n’è uno più serio. Essendo gente venuta dal basso credo che abbiano più sensibilità e quindi spero ci siano possibilità che il progetto vada in porto.

Le impiraresse, invece, cosa sono?

Sono le donne che hanno reso ricca la Serenissima con le perle. Casalinghe che hanno fatto tutto senza avere nulla in cambio. Le donne, attraverso aghi sottili, infilavano i fili nelle perle per poi realizzare le collane con tante file che venivano vendute ovunque. Tutto ciò ha reso famoso Murano. Le ragazze di oggi, purtroppo, non hanno la pazienza delle impiraresse che, con dieci aghi contemporaneamente, in pochi minuti montavamo la collana. Un lavoro incredibile. Purtroppo sono mestieri scomparsi, restano solo due signore a Venezia che ancora infilano le perle a mano: Marisa e Giovanna.

Cos’è per te il tempo?

La coscienza di ciò che devi fare. Se ad esempio faccio un programma per domani – lavoro, musica, spazio dedicato alla famiglia, eccetera – allora sarà un tempo utile. Per quanto mi riguarda l’utilità del tempo è trascorrerlo soprattutto con la famiglia portando dentro la mia tradizione. Devo lavorare, suonare e stare con mia moglie e le mie figlie. Però standoci in modo vero e non con una presenza “virtuale”, con il cellulare in mano oppure davanti alla tv. Noi siamo seduti per terra a fare musica, a disegnare, a fare il puzzle, a comporre le creazioni tutti insieme. Sì, per me il concetto di tempo è questo.

E la felicità?

L’equilibrio tra il mio benessere e quello dei miei cari. Da quando ho le mie tre donne in casa mi sento appagato, non ho più bisogno di nulla dalla vita.

Quale consiglio daresti a chi decide di cercare lavoro in un altro Paese?

Di comportarsi bene. Ovunque andrai se hai un comportamento decente sarai accettato. La conoscenza, infatti, viene cancellata da un brutto comportamento. Se ad esempio un professore universitario, che può condividere la sua conoscenza con i ragazzi, ha un brutto carattere, quei ragazzi non impareranno nulla…

Sogni nel cassetto?

Sì, quello di avere una famiglia e l’ho realizzato. Per me tutto l’aspetto materiale è un qualcosa di effimero.

Da ragazzo cosa ti piaceva fare?

Non avevo tempo per tante distrazioni… Ero preso dalla musica che si faceva in casa, dall’artigianato che c’era, ero circondato da pittori. Ogni giorno ero immerso nell’arte quindi non avevo tempo per pensare ad altro, le ore non bastavano mai. Sono stato fortunato ad avere un’infanzia così. Leggere un libro e poi parlarne insieme in famiglia, oppure suonare insieme e cantare. Queste erano le cose più importanti in famiglia.

Cancelleresti qualcosa nella tua vita?

Qualche scivolamento verbale fatto senza pensarci troppo, però niente di grave. Mi pento solo di aver offeso o fatto del male inconsciamente a qualcuno. Sono cose che non mi appartengono.

Quali sono a tuo avviso i mali dell’umanità?

Il nemico attuale si chiama Internet, la rete, l’intelligenza artificiale. Ho visto famiglie dividersi per questo sotto i miei occhi… Ho visto famiglie sedute in salotto dove ognuno vive la sua vita virtuale… Non c’è più comunicazione e la cosa è destinata a peggiorare con l’arrivo dell’intelligenza artificiale che ci renderà tutti più pigri. La verità è che a cambiare sono le epoche non le persone, portano novità che dividono sempre di più gli abitanti della terra.

Cosa dire del dramma delle guerre?

Che spesso sono alimentate dalle multinazionali. Le guerre sono tutte figlie del business, tra multinazionali e finti governi messi al potere. È una manipolazione generale e chi assorbe tutto dai media è quello che più ci rimette…

È vero che i veneti sono un po’ chiusi?

Chi lo pensa deve prima guardare cosa accade in casa propria… Non è affatto così. Non possiamo vedere solo il positivo nella vita, non avrebbe senso. La luce si accende perché c’è il positivo e il negativo, altrimenti non ce l’avremmo… A Venezia alcune persone che potremmo definire estremiste, sono entrate nel mio negozio dicendomi che stavo facendo delle buone cose però sarebbe stato meglio che al mio posto ci fosse un italiano… Io non posso arrabbiarmi per queste cose, per questa loro ignoranza, per l’ambiente in cui hanno vissuto e assorbito certe cose.

Cosa hai risposto, allora, agli “estremisti”?

Hai scelto tu dove nascere? La famiglia, il colore dei tuoi occhi o della tua pelle? No. Allora devi ringraziare solo il tuo Dio che lo ha fatto per te. Dobbiamo imparare prima a conoscere noi stessi altrimenti non riusciamo a comprendere l’altro. Spesso atteggiamenti del genere non sono figli del nostro pensiero ma si “assorbono” da altre persone vicine o in famiglia. Io vivo tranquillo con tutti non ho nemici. Inoltre s’impara anche da chi non la pensa come te. La diversità è una ricchezza.

L'ECO di San Gabriele
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