“ERO L’UOMO DELLA GUERRA”

Da progettista e fabbricante di mine antiuomo e anticarro alla guida dell’azienda di famiglia a sminatore umanitario nei Balcani. Ha prodotto e venduto quasi due milioni e mezzo di mine, tutte in maniera legale e alla luce del sole…

Papà cosa sono le mine? Ma tu produci armi? Allora sei un assassino!». È la domanda del figlio Ludovico, all’epoca di 8 anni, a scuotere Vito Alfieri Fontana e condurlo a una conversione drammatica: da progettista e fabbricante di mine antiuomo e anticarro alla guida dell’azienda di famiglia, la Tecnovar Italiana di Bari, a sminatore umanitario nei Balcani dove dal 1999 al 2018 ha diretto diversi progetti di sminamento umanitario in Kosovo, Serbia e Bosnia. Due vite vissute e tenute insieme da una conversione lacerante, durata diversi anni, che ha visto protagonisti diversi personaggi in quella che Fontana, nel libro Ero l’uomo della guerra (Laterza), del quale sono coautore, ha definito “offensiva sulla coscienza”. C’è don Tonino Bello, allora presidente di Pax Christi, il fondatore di Emergency Gino Strada, don Oreste Benzi che lo incoraggiò ad andare avanti quando non riusciva a trovare la strada del riscatto, Madre Teresa di Calcutta, che gli apparve in sogno, Jody Williams, Premio Nobel per la pace nel 1997 per aver dato vita alla Campagna internazionale per la messa al bando delle mine.

Avevo letto la storia di Vito Alfieri Fontana sui giornali che negli anni lo avevano intervistato. Grazie a un incontro fortuito, due anni fa, ho saputo che voleva scrivere un libro e raccontare, più in dettaglio, tutta la sua vita. Ho colto al volo l’occasione. Da cronista, volevo capire quando si era reso conto che il proprio lavoro non era più “innocente”, se mai lo fosse stato. Quando aveva capito che c’è una relazione strettissima tra produrre le mine e il loro impiego terroristico in guerra che nella stragrande maggioranza dei produce vittime civili. Ma m’interessava sapere anche il rapporto con il padre Ludovico, fondatore e dominus dell’azienda, il groviglio degli affetti, il legame con don Tonino Bello, così importante nella sua vita anche se non l’ha mai conosciuto di persona, la domanda brutale del figlio Ludovico.

“Negli anni ottanta – racconta Fontana – l’Italia era uno dei principali produttori al mondo di mine antiuomo. Insieme alla Valsella Meccanotecnica di Montichiari, una delle aziende principali del settore era la Tecnovar di Bari, fondata alla fine degli anni Cinquanta da mio padre, l’ingegnere Ludovico Fontana, e dove sono entrato a lavorare ufficialmente nel 1977, a ventisei anni. Per molti anni sono stato la mente dell’azienda. Ho progettato la mina TS-50, uno dei modelli più richiesti, esportati e copiati nel mondo per la sua capacità di attivarsi ed esplodere anche a distanza di decenni”.

Fontana dà una definizione di mine molto cruda: “Sono un mezzo partorito dall’infamia dell’uomo per sfregiare, terrorizzare, mutilare e uccidere. La stragrande maggioranza delle vittime sono bambini – spiega – quando non colpiscono innocenti, servono a rendere inabitabile un territorio per anni dopo la fine di una guerra, tenendo in ostaggio gli abitanti che non possono rientrare nelle proprie case, zappare la terra, portare le bestie al pascolo, passeggiare, andare a curarsi, giocare. In una parola, vivere”.

Fontana produceva due tipi di mine: a pressione e a frammentazione. “Le prime esplodono quando vi si cammina sopra, strappando via piedi, gambe, genitali, mentre le seconde si attivano attraverso un cavo iniziale e uccidono sul posto. Per chi le incontra, la seconda opzione è preferibile, a meno che non siano cariche di schegge metalliche che feriscono chiunque si trovi nelle vicinanze – afferma – dopo aver prodotto una mina, non la testavamo mai su un manichino che simulava un essere umano, ma su una lastra d’acciaio di 50 per 50 centimetri con uno spessore di 5 millimetri. Collocavamo la mina sulla lastra e la facevamo detonare. Se la mina trapassava la lastra, significava che aveva superato il test e che il ‘prodotto’ funzionava. Quando la mina non perforava l’acciaio, provavo un senso di disperazione. Tutto ciò era disumano. Non volevo vedere che quella lastra di prova non rappresentava soltanto un pezzo di metallo, ma poteva essere un uomo, un bambino che giocava a calcio in un campo o una donna incinta”.

Fontana ha prodotto e venduto quasi due milioni e mezzo di mine, tutte in maniera legale e alla luce del sole. Ma questo non era sufficiente per non provocargli un sussulto nella coscienza, per non spingerlo – a partire dai primi anni novanta – a non interrogarsi su quel business che gli garantiva un lauto stipendio e uno stile di vita agiato.

Nella conversione di Fontana è decisivo un invito. Quello di don Tonino Bello che nel 1993 lo esorta a partecipare a un incontro per dialogare con i militanti pacifisti. Purtroppo a quell’incontro il vescovo non riuscirà a partecipare perché muore un mese prima ma l’incontro comunque si svolge. Ad un certo punto, in mezzo alla platea, si alza un ragazzo e chiede a Fontana: “Ma lei ingegnere cosa sogna la notte? Che si faccia un’altra guerra così da poter vendere migliaia di mine?”. Per Fontana, un altro colpo decisivo che sgretola definitivamente la vita di prima: “Uscii da quell’incontro con l’animo sollevato – racconta – il motivo profondo del mio sollievo era dovuto al fatto che avevo la certezza di aver finalmente incontrato don Tonino pur non avendolo mai incrociato fisicamente, perché per incontrarsi non è sufficiente che qualcosa o qualcuno incroci il nostro cammino e ci venga incontro – come aveva fatto lui mandandomi quell’invito – ma è necessario che anche noi gli andiamo incontro, cercandolo, attendendolo e soprattutto desiderandolo. Credo, in fondo, di aver conosciuto don Tonino Bello meglio di tanti altri che lo hanno incrociato o anche frequentato a lungo. Voglio essere chiaro: la chiamata che ho ricevuto dopo quel dibattito non ha nulla a che vedere con visioni mistiche o esperienze soprannaturali, è stata piuttosto la certezza che l’incontro con quell’uomo di Dio avrebbe generato per me un percorso nuovo di vita, anche se il nuovo cammino già mi appariva a ostacoli, incerto e durissimo. Come scrive il profeta Daniele, coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre. Da quella sera ho avuto la certezza di essere anch’io uno di quei molti”.

Nel 1993 Fontana decide di non produrre più mine e la Tecnovar si avvia a spegnersi da sola. Anni drammatici, anche dal punto di vista economico, perché per un ex produttore di armi interrompere l’attività e tentare di passare nello sminamento umanitario non è facile. Lui ci riesce. Perché ci crede, è convinto del percorso intrapreso, nonostante l’ostilità del padre che non accettava la chiusura dell’azienda da lui fondata alla fine degli anni cinquanta.

Nel 1997 Vito Alfieri Fontana partecipa alla Conferenza diplomatica di Oslo come esperto della Campagna internazionale per la messa al bando delle mine fianco a fianco con Jody Williams. Quel summit porterà alla moratoria, firmata a Ottawa, in Canada, il 3 dicembre di quell’anno, che vieta l’uso, la detenzione, la produzione e il commercio di mine antiuomo e impone la distruzione degli stock esistenti e l’assistenza alle vittime al quale aderiscono subito 125 Paesi, tra cui l’Italia, con alcune defezioni eccellenti come Stati Uniti, Russia, Cina, India, Pakistan, Singapore ed Egitto.

Nell’autunno del 99 inizia la seconda vita in Kosovo come sminatore umanitario per l’Ong italiana Intersos. “Solo quando mi sono ritrovato per la prima volta su un campo minato mi sono reso conto cosa veramente significhi, a ogni passo ti può esplodere una mina sotto i piedi – spiega – vedi un bosco bellissimo, una fabbrica, la casa di una persona ma sotto è pieno di mine. E allora capisci quello che hai fatto. È difficile dirlo con altre parole: ti senti solo un pezzo di m…”.

Fontana ha sminato in Kosovo, poi per pochi mesi a Belgrado e infine a Sarajevo, la città martire del conflitto che ha insanguinato i Balcani per tutti gli anni novanta. Nel suo team ha avuto anche sminatori serbi e bosniaci insieme per attutire, attraverso il lavoro, l’odio etnico che ancora pervade i due popoli, frutto avvelenato di un conflitto che non finisce più.

Anni duri, per la lontananza da casa e per la situazione complicata sul terreno, tra tensioni etniche e un dopoguerra precario e cattivo.

“La guerra – confida – l’ho vista in faccia e ho avuto a che fare con molti ex soldati. Non c’è nulla di poetico o di eroico nei loro racconti. Sono giovani uomini, con le loro paure. A nessuno piace stare in trincea a rischiare la pelle. Mi dicevano che quando erano in prima linea, per la paura di muoversi ed essere facile bersaglio, se la facevano addosso, letteralmente. In tv queste cose non le dicono, poiché devono passare altri messaggi; in realtà la narrazione è completamente falsata a vantaggio di una parte o dell’altra, a seconda delle convenienze e delle alleanze del momento. Un giorno siamo andati a bonificare un terreno tra due trincee e trovammo un mare di bottiglioni di liquori. Gli sminatori che lavoravano con me, ex soldati, mi dissero che quello era un modo per sentire il nemico arrivare, grazie rumore fatto dal vetro calpestato: in realtà si ubriacavano per provare meno paura. Nelle cosiddette prime linee d’attacco vengono inviati ragazzini caricati di anfetamine: sono giovani che vanno avanti con occhi semichiusi sparando a caso, senza mirare: tutti destinati al massacro. Servono soltanto a far capire agli esperti nelle retrovie da dove partono i colpi. La guerra è questo: una grande porcheria che il mondo può fare ai più deboli. Nelle mie due vite ho capito che per la guerra basta armarsi, mentre per la pace è indispensabile il coraggio”.

Più volte, nel corso dei nostri colloqui, ho chiesto a Fontana se l’impegno umanitario, inseguito caparbiamente a costo d’innumerevoli sacrifici come la lontananza dalla famiglia, avesse non dico cancellato ma almeno attenuato il senso di colpa per la vita precedente. La risposta è sempre stata no: “Posso solo dire di essere contento ma non felice perché il problema non era espiare una colpa ma la gente che è morta e si è fatta male a causa degli ordigni che ho progettato e costruito. Ho costruito e venduto due milioni e mezzo di mine, ne ho tolte migliaia, per quasi vent’anni, nei Balcani. Dal punto di vista numerico, il bilancio è impari. Da quello della mia coscienza pure, perché il male compiuto resta. Per sempre”.

L'ECO di San Gabriele
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