“SARÀ PERCHÉ NON SONO UN ENTUSIASTA DEL ‘POLITICAMENTE CORRETTO’, MA DOPO ALCUNE SUE RECENTI ‘USCITE’ FRANCESCO LO TROVO ANCORA PIÙ SIMPATICO. È UN GRANDE, LO INCONTREREI VOLENTIERI. QUEST’ANNO SONO STATI SPESI DUEMILA MILIARDI DI DOLLARI PER LA GUERRA, CON QUELLA SOMMA SI RISOLVEREBBE, STRUTTURALMENTE, IL PROBLEMA DELLA FAME NEL MONDO…”
Sarà il mal d’Africa, così tanto raccontato da scrittori, registi e viaggiatori, sarà l’amore verso una terra così bella e nello stesso tempo abbandonata, sarà per il desiderio e la necessità di condividere quotidianità e amore con chi subisce da sempre la violenza delle guerre, lo sfruttamento, la povertà… Sarà un po’ tutto questo e anche altro, fatto sta che Gianni Covatta, meglio conosciuto come Giobbe Covatta, non riesce proprio a staccarsi dal continente a forma di cuore. Sono trent’anni, infatti, da quando il famoso e poliedrico artista nativo di Taranto ma napoletano di adozione, sposato e padre di Niccolò e Olivia, si è messo in gioco “sporcandosi le mani”. Cioè occupandosi di persona di chi ci tende la mano. Un impegno umanitario condiviso con sua moglie, Paola Catella, sceneggiatrice di successo, nei confronti di decine di popolazioni africane conosciute in un trentennio. Tutto ha avuto inizio nell’ottobre del 1994 con l’incontro, casuale, di un inglese che da anni cercava di far decollare la sede italiana di una onlus chiamata Amref, oggi la più grande organizzazione sanitaria africana senza fine di lucro che opera nel continente. Parliamo di una rete internazionale attiva in 35 Paesi africani con più di 130 progetti di promozione della salute. Oltre agli uffici nazionali e regionali in Africa, Amref possiede 11 sedi in Europa, Stati Uniti e Canada, impegnate in attività di sensibilizzazione, patrocinio e raccolta fondi. Da quel giorno Giobbe Covatta è diventato un instancabile e attento testimone dei problemi dell’Africa, catalizzando con la sua proverbiale comicità, a volte provocatoria e “irriverente”, l’attenzione su tematiche spesso difficili come quelle delle diseguaglianze, della povertà, dell’ambiente, dell’infanzia. Con Amref ha realizzato moltissime campagne di sensibilizzazione e di raccolta fondi, e realizzato diversi documentari selezionati nei festival italiani e trasmessi sulla Rai. Durante una delle più recenti missioni in Africa, ha realizzato anche una Web serie per raccontare le fragilità del continente con la profonda leggerezza che lo contraddistingue.
Recentemente ha mandato in libreria, insieme a sua moglie, Il commosso viaggiatore (Giunti Editore, pp. 208, 16 euro), un libro godibilissimo, dove l’ironia affianca magistralmente un racconto, autentico, senza sconti, che ha per protagonista una terra meravigliosa ma mortificata e violentata dalla cattiveria dell’uomo. In tutti questi anni Covatta ha visitato territori dove la realtà di una vita normale viene ribaltata, mostrando scenari di estrema povertà… Senza dubbio dinanzi a tanta ingiustizia e sofferenza fare spazio all’ironia, strappare un sorriso è cosa complicata, roba per pochi. Lui è uno di quelli. E da grande comunicatore lo ha fatto con sagacia e leggerezza, stimolando un sorriso.
Da anni e da varie “tribune” si denuncia l’ingiustizia perpetrata da multinazionali che occupano la terra che dovrebbe dare da mangiare a tutti. Per non parlare della barbarie dei vari gruppi armati, assoldati dai potenti di turno, che lasciano scie di morte e disperazione per ottenere il controllo delle grandi risorse naturali, minerarie, petrolifere e forestali. E poi ancora carestie, mancanza di accesso a cure e medicinali, il calpestato diritto all’istruzione. Appelli che restano inascoltati, che non raggiungono il cuore degli uomini. Nulla cambia, così l’indifferenza torna a inchiodare le menti, lasciando la scena alla retorica, alla propaganda e all’enunciazione di buoni propositi. E invece c’è bisogno, come l’aria, di una nuova umanità e di una coscienza rinnovata.
Nonostante la buona volontà e la grande disponibilità del nostro interlocutore, non è stato un “inseguimento” facile. Però uno che si chiama Giobbe non può che dispensare pazienza…
Come nasce, Covatta, Il commosso viaggiatore?
Non certamente come una guida turistica da mettere in valigia, diciamo che è una sorta di lettera d’amore e di gratitudine nei confronti di una lunga esperienza di viaggio. Insomma, se non vi interessano le località di villeggiatura e avete tempo da perdere per leggere il racconto delle nostre tragicomiche vicende di viaggio, allora accomodatevi pure…
Immagino si senta più viaggiatore che turista…
Assolutamente sì. Da ragazzo ho imparato prestissimo ad andare in barca a vela e ho molto amato viaggiare per mare, anche da solo. Ma crescendo ho capito che arrivare in posti nuovi senza entrare realmente in contatto con le persone che vi abitano non vuol dire compiere un viaggio, ma solo spostarsi.
Cosa significa conoscere una persona?
Stare con loro, vedere come si mangia, con chi si mangia e cosa si mangia. E poi ancora dormire nei loro letti, ascoltare la loro musica, comunicare anche se non si conosce la loro lingua… Io parlo solo il napoletano, eppure ho passato momenti bellissimi con africani che si esprimevano solo in swahili: comunicavamo in francese, ben consapevoli che nessuno di noi sapeva il francese. Eppure ci capivamo. Conoscere una società è viverci dentro, capire quali sono i suoi valori. Questo si può fare in mezza giornata, cercando di cogliere aspetti fondamentali, oppure nel corso di anni convivendo con il popolo. La differenza fra un turista e un viaggiatore è tutta qui: il viaggiatore si sposta per conoscere, il turista per farsi riconoscere…
Quale tipo di approccio mette in campo quando incontra e si rapporta con una tribù?
Io non sono molto tecnico…, di solito mi comporto normalmente cercando la reciprocità nella curiosità. Loro sono curiosi di me e io di loro. In pratica ci guardiamo, ci annusiamo, ci rincorriamo… Ovviamente tutto in maniera gioiosa, ci divertiamo. In una parola, conviviamo.
Ha mai vissuto situazioni che hanno messo in pericolo la sua vita?
Si, ad esempio in Sudan ci hanno sparato da una collina… Eravamo su una jeep durante un trasferimento quando, alcuni guerriglieri, hanno aperto il fuoco. Fortunatamente siamo rimasti tutti illesi. Naturalmente c’è da considerare che spostarsi in quei territori è tutto più complicato e pericoloso, non è come andare da Roma a Milano… Bisogna attraversare fiumi, strade dissestate, ponti a dir poco precari e non ultima la possibilità di fare spiacevoli incontri… Sicuramente il muoversi, soprattutto su distanze lunghe, è tra le cose più pericolose. Le distanze, infatti, sono enormi e le condizioni certamente non facili.
A quali progetti umanitari ha collaborato e sta collaborando?
Il mio ruolo nei progetti è quello del comunicatore, non costruisco ponti o scuole. Faccio da megafono a iniziative che ritengo siano storie positive.
E quante ne ha incontrate?
Sinceramente tante.
È mai capitato di dover misurare i suoi limiti davanti alla sofferenza?
Più che altro mi sono trovato davanti a una consapevolezza di impotenza. Cioè essere consapevole di non poter fare nulla, di non poter intervenire per cambiare o evitare una certa situazione.
L’Africa ha la popolazione più povera del mondo pur essendo il continente più ricco del pianeta. Come spiegarlo?
Per capire la portata di questo fenomeno basta pensare che in Africa subsahariana si trova il 75 per cento del 181 cobalto del pianeta, il 50 per cento del manganese, il 12 per cento dell’uranio, il 46 per cento dei diamanti. Una manna per il mondo occidentale che, puntando alla green economy, ha un bisogno sempre maggiore di tali minerali, possibilmente estratti da schiavi, così da abbattere i costi. E l’Africa, “ringraziando il cielo”, è piena di aspiranti schiavi, spesso minori, che sputano sangue e salute nelle miniere in condizioni disumane, per estrarre quei minerali senza i quali il mondo sviluppato si fermerebbe. C’è un apposito ufficio di collocamento che li seleziona: la paga è pessima, ma vuoi mettere la soddisfazione di partecipare alla rivoluzione ecologica e di sostenere la lotta al cambiamento climatico? Certo, è vero che il continente africano contribuisce in maniera irrisoria al riscaldamento globale, ma questo sembra non importare a nessuno. Ecco perché alle potenze mondiali che si affannano sul suo territorio conviene che l’Africa continui a essere un serbatoio di risorse, piuttosto che diventare un mercato. In altre parole: meglio avere degli schiavi che dei consumatori.
Ma i tesori minerari non rappresentano l’unica ricchezza di questo continente…
Infatti… L’ Africa è il continente con più terreno coltivabile disponibile al mondo! Una terra fertile che fa gola a molti, tanto che ogni anno ne viene sottratta sempre di più dalle solite potenze economiche straniere. Questo fenomeno è chiamato land grabbing (letteralmente: accaparramento delle terre) e dal 2008, cioè dallo scoppio della crisi finanziaria, è cresciuto a dismisura. Secondo i dati dell’ultimo rapporto dall’organizzazione non governativa Land Matrix, negli ultimi vent’anni trentacinque milioni di ettari del continente (l’Italia ne conta un po’ più di trenta milioni) sono stati ceduti a società straniere! Tra i primi dieci investitori, accanto a Stati Uniti, Gran Bretagna e Olanda, ci sono le economie emergenti di Cina, India e Brasile, colossi petroliferi come Arabia Saudita, Emirati Arabi e Malesia, paradisi fiscali come Singapore e Liechtenstein.
Lei alla beneficenza preferisce la solidarietà…
Certo, ma non soltanto per un fatto filosofico. Direi anche per un fatto logico, pratico, etimologico. Essere solidali con qualcuno significa condividerne il problema, cercare di capire qual è la situazione che in quel momento richiede la tua solidarietà. La differenza, quindi, non sta nel contributo economico che uno dà ma nella conoscenza del problema e nella vicinanza per la soluzione di quel problema.
Ci racconta i bambini africani…?
Potremmo stare mesi a parlarne… Quella che salta più agli occhi è la loro autonomia. Un bambino africano diventa adulto vent’anni prima rispetto, ad esempio, a un coetaneo italiano… Ci sono esigenze talmente pressanti, infatti, che per affrontarle occorre diventare grandi presto… Autonomi loro malgrado, a quattro anni le femmine si occupano dei fratelli più piccoli e i maschi a quattro anni vanno a pascolare le pecore e le capre. Seri e compunti, come commercialisti, consapevoli del loro ruolo, rispettosi. Insomma, sono dei piccoli adulti alti un metro e trenta e con occhi enormi, come olive nere. Ecco, la vita di un bambino di 13 anni ti sembra quella di un adulto. Da noi a trent’anni i figli, spesso, vivono ancora con i genitori e l’aspettativa di guadagnare per vivere è ancora lontana. In Africa, invece, da tempo sono fuori a pedalare…
A proposito, a sua figlia Olivia ha fatto vivere la sua stessa esperienza…
Più che una mia volontà è stata una sua esigenza. Ovviamente, vivendo in una famiglia dove questo tipo di esperienza era particolarmente presente, ha avvertito anche lei il desiderio di sperimentarla.
Tornando ai bambini, ciò che colpisce sono la serenità e la gioia disegnate, comunque, sui loro volti… Si divertono anche rincorrendo una semplice palla di pezza o tenendo in mano un pezzo di legno…
Ma certamente… I bambini sono sempre bambini in qualunque parte del mondo si trovino. Noi spesso ci meravigliamo di questo non ripensando mai al nostro dopoguerra. Anche quei bambini erano felici con poco…
La Carta dei diritti dell’infanzia, approvata dall’Assemblea Nazioni Unite nel 1989, almeno per l’Africa credo sia rimasta ferma all’enunciazione di validi e condivisibili principi…
Indubbiamente ritengo sia una grande conquista, poi, però, come per tutti i diritti, bisogna applicarla… Gli africani della convenzione non sanno niente, neanche immaginano di avere un sacco di diritti: sanno solo di avere un casino di doveri e nessun privilegio. Del resto i punti di vista su diritti, doveri e privilegi variano molto a seconda delle latitudini. Ai bambini nati nell’Occidente ricco e industrializzato, infatti, bisognerebbe spiegare che avere il motorino a quattordici anni e il cellulare a otto, non è un diritto, è un privilegio. E i genitori dovrebbero capire che comprare al figlio il motorino a quattordici anni e il cellulare a otto non è un dovere, è una stoltezza, tanto per usare un eufemismo…
Che dire dell’istruzione?
Mentre per una larga fetta di bambini occidentali la scuola è un dovere insopportabile, per quelli africani, purtroppo, l’istruzione è un diritto negato… Detto questo, i figli dei dittatori studiano nelle scuole di eccellenza a Londra e a Parigi, mentre il resto dei bambini in età scolastica deve studiare in Africa, dove però le scuole sono poche, lontane e non proprio all’avanguardia. Spesso accade che la scuola stia a dieci chilometri di distanza da casa, e prima di andare a scuola bisogna recarsi a prendere l’acqua. Oltretut-to, se i bambini vanno a scuola non possono andare a pascolare le capre e le pecore, per cui spesso la scuola equivale a una perdita di braccia a disposizione della famiglia Significa non lavorare, essere a carico di qualcun altro che mentre tu studi cerca di provvedere alla tua sopravvivenza. Questo è uno dei problemi fondamentali.
Strutture e materiali a disposizione?
Le scuole più caratteristiche sono sicuramente le scuole rurali. Di solito sono baracche dai tetti di lamiera con temperatura interna che è la stessa che serve da noi a cuocere la crostata… Non ci sono sezioni o divisioni: c’è una sola stanza piena di alunni dai cinque ai ventisette anni in un numero variabile tra i cento e i duecento. I maestri, invece, sono in numero variabile tra uno e zero… In questa grande stanza spesso non ci sono neanche i banchi e i bambini sono costretti a portare all’interno dei ciocchi e dei tronchetti sui quali sedersi. I quaderni sono quelli di una volta che per me hanno un sapore di nostalgia, anche se oggi un bambino della quinta elementare me lo tirerebbe appresso: copertina nera e carta porosa con il margine rosso bordeaux. Le matite africane, poi, sono le più corte del mondo. A nessuno verrebbe mai in mente di buttare una matita perché è corta: quando è veramente troppo corta vuol dire che non esiste più…
E i libri di didattica?
Anche la didattica non è sempre un granché. I libri che si usano sono quelli che noi europei non usiamo più e che doniamo, ma solo perché sono dagli anni sessanta che stanno a prendere polvere su qualche scaffale e non sappiamo dove metterli. Ho sentito una maestra fare un dettato, da un abbecedario inglese degli anni settanta, che recitava più o meno così: “il papà fuma la pipa in salotto davanti alla tv; la mamma mette il tacchino nel forno; dalla finestra si vedono scendere i fiocchi di neve; Natale è alle porte”. Quei poveri bambini il dettato l’hanno scritto, ma tutti hanno pensato che fosse tratto da un libro di fantascienza. Non sapendo cosa sia un salotto, una tv e soprattutto un fiocco di neve. Fatto sta che l’analfabetismo è altissimo e i bambini africani sono condannati a crescere ignoranti. Di certo una scuola in più non risolve il problema del diritto all’istruzione, soprattutto in un continente in cui la popolazione cresce in maniera esponenziale, al contrario delle risorse e dei servizi. Quando sono nato io in Africa c’erano trecento milioni di persone, oggi sono un miliardo e quattrocento. Popolazione più che quadruplicata, mentre purtroppo i mezzi e le strutture sono rimasti quasi invariati, condannando milioni di bambini a non andare a scuola.
In questa direzione i dati sono deprimenti: quasi ottanta milioni di bambini sono costretti a lavorare per sopravvivere e far sopravvivere la propria famiglia…
Nell’Africa subsahariana un bambino su quattro non può giocare o studiare perché coinvolto in lavori spesso usuranti e pericolosi. Ho visto migliaia di bambini pastori, lattonieri, fabbricanti di mattoni, minatori. O quelli urbani: bambini venditori di tè, gli sciuscià, bambini impiegati nell’edilizia o nelle discariche, ma non ho mai visto un bambino commercialista o chirurgo estetico… È evidente che lo studio di tutte quelle che sono le discipline presenti non può che essere un supporto preziosissimo per vivere nel mondo e conoscere e gestire tutte le sue dinamiche. In taluni casi, però, per non dire spesso, i potenti di turno preferiscono avere un popolo poco istruito e nello stesso tempo spaventato… Cercano cioè di sbiadire più possibile l’aspetto culturale di una nazione e nello stesso tempo farla sentire in continuo pericolo. Magari paventando il rischio di una guerra, l’invasione di un altro Stato, oppure un’epidemia. Con simili condizioni, dunque, qualunque popolo è più facilmente gestibile…
Un altro capitolo drammatico è legato alle tante guerre e ai conflitti spesso dimenticati dal resto del mondo…
Purtroppo ci sono dati inoppugnabili a confermarlo. Negli ultimi quindici anni si sono combattute più guerre in Africa che in tutto il resto del mondo, nell’indifferenza generale, perché la guerra è un affare molto conveniente. Basta dire che i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite producono il novantacinque per cento delle armi che esistono su questo Pianeta…
A proposito, il fiume di soldi che America ed Europa destinano all’invio di armi in Ucraina e Israele s’ingrossa sempre più, come anche le risorse che diversi Stati indirizzano alle armi nucleari. Come fermare la follia dell’uomo?
Quest’anno sono stati spesi duemila miliardi di dollari per la guerra mentre per la fame nel mondo soltanto una quarantina… Evidentemente la fame nel mondo non è un grande affare… E dire che con quella somma si risolverebbe, strutturalmente, il problema della fame nell’intero Pianeta. Attenzione: non si parla di cibo da inviare in Africa, bensì della creazione di strutture e condizioni in grado di consentire la produzione di cibo, per sempre, dove oggi non c’è. Ne vuole sapere un’altra?
Prego…
Lo Stealth B2, l’avveniristico bombardiere invisibile, costa la bellezza di oltre 2 miliardi di dollari. Non sarebbe allora meglio spendere diversamente tutti quei soldi? Soprattutto considerando che con quello che costano due bombardieri si potrebbero vaccinare tutti i bambini del mondo per tutte le malattie vaccinabili…
Guerre, povertà e cambiamenti climatici sono alla base delle ondate migratorie. I cosiddetti viaggi della disperazione che spesso, purtroppo, si trasformano in terribili tragedie, come quelle accadute recentemente a largo di Calabria e Sicilia. Secondo le agenzie dell’Onu, Unhcr, Oim e Unicef dall’inizio dell’anno si contano ottocento morti, una media di cinque al giorno, ma gli appelli all’Europa restano inascoltati. Addirittura chi fa volontariato viene considerato un collaborazionista degli “invasori”…
Chi lo dice non merita nessun commento, o meglio, il commento che merita potrei dirglielo ma lei difficilmente potrebbe pubblicarlo…
Non serve, credo di aver intuito…
Bene… Prima di dire simili stupidaggini basterebbe sfogliare un vocabolario e conoscere il significato di volontariato e collaborazionismo… Quando uno raccoglie un disperato in mezzo al mare, fuggito su un barchino dalla guerra o dalla carestia, è una brava persona non un collaborazionista… Purtroppo è la lingua italiana che spesso sfugge di mano…
Cosa rispondere a chi dice aiutiamoli a casa loro…?
Che in quelle parole c’è tanta ipocrisia visto che esiste da tempo una legge sulla cooperazione internazionale. Uno 0,7 per mille del Pil è destinato, per legge, alla cooperazione e quindi rientrerebbe nella logica “aiutiamoli a casa loro”.
Però…?
La legge non è stata mai applicata…
Arriverà un giorno in cui il razzismo sarà solo un triste ricordo?
Immagino e spero di sì, anche se non credo di riuscire a vedere quel giorno…
Qual è oggi il maggior pericolo per l’uomo?
La perdita della precondizione della sopravvivenza. La precondizione è avere un pianeta sano su cui poi fare accadere le cose, e cioè essere attenti ai diritti, all’economia, alle strutture, eccetera…
Cibo e acqua, due elementi preziosissimi ma purtroppo assai carenti in Africa…
Purtroppo quello che manca è il paracadute di turno… Mi spiego. Durante una qualsiasi emergenza da noi c’è lo Stato che pensa ad attenuare i danni causati a un territorio e ai suoi abitanti. Se ad esempio in Africa non piove un solo giorno, la popolazione va già insofferenza non essendoci nessuno paracadute pronto… Devi vedertela da solo. Se vivi vicino a un fiume il problema è meno complicato, se sei lontano invece lo è molto di più… Stessa cosa vale per il cibo. Se c’è una carestia, cosa che capita spesso, si vive in grande difficoltà… Altrimenti si mangia poco, ma qualcosa da mettere in tavola si trova…
Capitolo sanità: come ci si cura?
Male. Ci sono pochissimi medici, il basso tasso di scolarizzazione, purtroppo, si fa sentire parecchio in questo settore. Anche in questo caso i numeri valgono più di mille parole. Negli Usa per la sanità si spende (fra pubblica e privata) più di sette mila euro l’anno a testa, mentre in Africa la spesa pro capite è inferiore a cento euro. Quasi tutti i Paesi africani hanno un tale debito pubblico verso quelli ricchi e industrializzati, che non gli avanza praticamente niente per la sanità. In Ghana, ad esempio, nel 2019 la spesa per la restituzione del debito era pari a undici volte la spesa sanitaria. E così vengono azzerati i soldi da investire per la sanità, mentre i Paesi ricchi si rimpinzano di medicine di ogni tipo. Inoltre – e ritorna il problema dell’istruzione – i medici in Africa sono davvero pochissimi: in media, in tutto il continente, ci sono 2,8 medici e 11 infermieri ogni diecimila abitanti a fronte dei 33 medici e 80 infermieri dell’Europa. Per non parlare delle terapie intensive che in Italia sono novemila mentre in Sudan non ce n’è neanche una.
Progetti futuri?
Sto pensando di collaborare alla realizzazione di un progetto umanitario per il salvataggio dei disperati nel Mediterraneo…
Quale cosa la mette più in pace?
Io non ho problemi, prendo sonno tranquillamente… Scherzi a parte, non saprei… Anche perché se stessi in pace smetterei di lavorare…
Allora cosa la rende triste?
L’indifferenza verso situazioni e condizioni che mettono in discussione la sopravvivenza di tantissime persone, per non dire di tutti. Anche perché chi lo fa, a mio avviso, ne è assolutamente consapevole. Quindi è in malafede.
In questi trent’anni di conoscenza “stretta” con l’Africa, quale bilancio viene fuori? Ha dato o ricevuto di più?
Non c’è partita… L’Africa è unica, mi ha dato tantissimo. Finché mi sarà possibile continuerò ad andarci per ascoltare la sua voce, anche se non è facile riuscirci visto che è una terra muta in mezzo a terre sorde…
Voglio terminare la nostra chiacchierata chiedendole di papa Francesco, colui che non ha mai smesso di far sentire la voce di denuncia contro l’ipocrisia dei potenti della Terra invitando tutti, nessuno escluso, a rimanere saldi nell’accoglienza per arricchirsi dei valori dell’altro…
Francesco mi è particolarmente simpatico. Sarà perché non sono un entusiasta del “politicamente corretto”, ma dopo alcune sue recenti “uscite” lo trovo ancora più simpatico. È un grande, lo incontrerei volentieri. Anzi, se potesse farglielo sapere ne sarei felice…