SPESSO CI SI TROVA DINANZI A UNA DOPPIA LETTURA CHE NON AMMETTE ALTERNATIVE: DA UN LATO, LA CRIMINALIZZAZIONE E LA REPRESSIONE IN NOME DELLA “SICUREZZA”, DALL’ALTRO LA MEDICALIZZAZIONE. DELLE CAUSE DEL DISAGIO, PERÒ, NON SI VUOLE PARLARE…
Ci sono storie apparentemente minime nella cronaca che spesso non fanno clamore. Quella di Filippo è una di queste. Riguarda, sia pure indirettamente, Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni per il cui omicidio è in carcere l’ex fidanzato Filippo Turetta. Il caso ha commosso l’Italia, suscitando un enorme dibattito. Tanto che la tomba della ragazza che si trova nel piccolo cimitero di Saonara, in provincia di Padova, è visitata da moltissime persone che arrivano per posare un fiore, recitare una preghiera, lasciare un biglietto o un messaggio.
Tra questi nei giorni di Natale Andrea Camerotto, zio di Giulia, ha trovato una lettera molto particolare. Due fogli scritti a mano incastonati tra i fiori. Il ragazzo, che si firma Filippo nella missiva, racconta di essere cambiato dopo la morte di Giulia. Perché quel delitto lo ha toccato profondamente, tanto da spingerlo a riflettere su di sé, sulle emozioni nei confronti della sua ex, sull’ossessione di Turetta e che parte da quelle “piccole cose tutt’altro che piccole” che possono passare per la testa degli uomini.
“Ciao Giulia, mi chiamo Filippo e so da cosa cominciare: dalle scuse, anche se servono a poco”, scrive Filippo la cui lettera è stata pubblicata sui social dallo zio di Giulia. “In quel periodo – prosegue il ragazzo – mi scrivevo ancora con la mia ex, per la quale non avevo smesso di provare qualcosa. Lei con il passare del tempo ha iniziato a ignorarmi e io, che sentivo parlare di continuo di quanto Turetta fosse ossessivo nei tuoi confronti, mi sono fermato, ho guardato dentro di me e cercato di riflettere sulla mia situazione. Probabilmente è merito delle parole dei tuoi familiari, anche se parlare di merito in queste situazioni non è la cosa migliore”. Poi continua: “Sono convinto che ciò che ti è accaduto sia cominciato da piccole cose, piccole a tal punto che diventa persino difficile rendersene conto. Provo rabbia e pena per tutti quei ragazzi e uomini che continuano a distruggere la vita delle donne. Ma sono poi io così diverso? D’altronde molte volte le piccole cose noi nemmeno le notiamo”.
Le parole di Filippo arrivano come un flusso di coscienza di un coetaneo “e quasi vicino di paese”, come si definisce. Il ragazzo scrive e s’interroga sui suoi gesti, sulle modalità con cui fino a quel momento ha vissuto la sua relazione sentimentale. Si chiede: “Alcuni dicono che la tua morte sia stata utile ma come si può reputare una morte utile quando questi tragici eventi accadono (quasi) ogni giorno da anni e la situazione sembra non cambiare”. In chiusura, Filippo torna a chiedere scusa. “Per l’ennesimo nostro fallimento che, come è stato dimostrato nei giorni seguenti alla tua scomparsa, non è stato l’ultimo”.
Il racconto dei casi di femminicidio (ce ne sono stati più di cento nel 2023 in Italia) può indugiare sui dettagli più morbosi oppure offrire lo spunto per educare i ragazzi, indurli a riflettere, a cercare di capire se stessi e il complesso mondo delle relazioni affettive e sentimentali. Non è facile, non è neanche impossibile però.
Quello di Giulia Cecchettin, non meno terribile di tanti altri, è un caso che ha scosso l’opinione pubblica perché in quella ragazza di 22 anni che si apprestava a festeggiare la propria laurea e concludere il percorso di studi molti, giovani e adulti, si sono rivisti e rispecchiati.
Ma la lettera di Filippo che ha compreso il suo atteggiamento possessivo nei confronti della propria ex fidanzata è anche il frutto dell’atteggiamento composto e “pedagogico”, se così si può dire, tenuto dal padre di Giulia, Gino Cecchettin, durante i giorni della scomparsa, della scoperta della morte e dei funerali della figlia celebrati a Padova il 5 dicembre scorso e dove sono arrivate centinaia di migliaia di persone.
Da padre che ha perso una figlia in questa maniera da un ragazzo che diceva di amarla, non ha fomentato l’odio, non ha chiesto pene esemplari (c’è un’indagine in corso e il processo è ancora di là da venire) ma si è rivolto agli uomini e ai padri dicendo “noi” e non “voi” chiedendo ai genitori e ha chi ha responsabilità educative di lavorare nella quotidianità perché nessuno si trovi nell’abisso in cui, da padre, è precipitato lui. Poi ha scelto i versi di una poesia, Il vero amore, del libanese Kahlil Gibran perché, ha detto, “credo possa dare una reale rappresentazione di come bisognerebbe imparare a vivere”. Un invito a riflettere che dice, più di mille discorsi, come la prevenzione della violenza sulle donne passa dall’educazione.
È stato anche grazie all’azione discreta di Gino Cecchettin se il dibattito su questo ennesimo caso femminicidio non è scivolato nelle frasi fatte e nella richiesta di vendetta e pene esemplari.
Opposti estremismi
Quando raccontano i “giovani”, i media spesso incappano in due riflessi condizionati. Il primo è che sarebbero tutti violenti, pericolosi, rabbiosi o addirittura drogati: è il caso delle baby gang che si sfidano nelle periferie della città, i rapper che inneggiano alla violenza (anche sulle donne), all’amore possessivo, ai soldi, alla droga, al sesso facile e alle auto di lusso. Il secondo è che i ragazzi sono tutti NEET (acronimo inglese che indica i ragazzi che non studiano e non lavorano, ndr), “sdraiati”, solitari, anoressici o bulimici, ipnotizzati da altre dipendenze come lo smartphone, la Playstation, il gioco d’azzardo… Questa doppia lettura suscita due realtà che non ammettono alternative: da un lato, la criminalizzazione e la repressione in nome della “sicurezza” come sentiamo sovente nei talk-show e non solo, dall’altro la medicalizzazione (e magari gli psicofarmaci). Delle cause del disagio non si vuole parlare. E quando esplode il problema in maniera tragica, meglio proporre soluzioni facili e a portata di mano: il carcere, gli psicofarmaci, l’assistente sociale.
Il caso della lettera di Filippo lasciata sulla tomba di Giulia Cecchettin è un esempio positivo di come parlare di questi temi senza l’assillo della punizione e della colpa – pur importanti per chi commette azioni del genere – e senza i toni violenti dei social perché questa strada è feconda e aiuta a riflettere gettando un seme per interrogarsi su se stessi.
La violenza, d’altra parte, non è caratteristica di questa stagione anche se l’incalzare martellante della cronaca ci dà questa percezione suscitando sgomento e ansia. “La nostra società è sempre stata violenta, siamo violenti da quando siamo qua, su questa terra – ha spiegato lo psichiatra Paolo Crepet, – se siamo più violenti di prima, non so dirlo. So che la generazione di mio padre ha fatto la guerra, so che c’è stato il fascismo e che i conti con il fascismo li abbiamo fatti in maniera violenta, poi c’è stato il terrorismo, e c’è stata pure l’eroina, anche lei era violenta. Posso dire che a un certo punto abbiamo iniziato a usare modi violenti più soft, cartoni animati terrificanti, playstation con giochi terrificanti, per non parlare dei cantanti trap, terrificanti pure loro”.
Ecco che l’educazione, i toni, la misura diventano fondamentali per evitare un’altra trappola: la colpevolizzazione dei maschi in quanto tali. Invece, è fondamentale nell’educazione riscoprire il senso del limite, come spiega Crepet: “Penso che se si fa l’amore a tredici anni e questo è politicamente corretto per milioni di italiani, di genitori italiani, qualcosa non va – ha spiegato, – se a tredici anni fai l’amore, vuol dire che hai il week end libero, che vai in discoteca e qualche madre e qualche padre ritengono che vada bene così. Lo dico da 30 anni che non va bene, gli mettono pure in tasca i cento euro per la serata, soldi che spenderanno in alcol e droga, perché di questo si parla”.
Per Crepet, una delle cause del dilagare della violenza è che “c’è un mondo del quale capisci perché c’è tutto questo oggi nella società. Non c’è nessuna voglia di ascoltare i figli, non ci interessa, è tutto un delegare, la famiglia delega alla scuola, la scuola delega non si sa a chi, il ministero pensa di risolvere non si sa come, sabato faranno una conferenza stampa, ma vi prego, quale conferenza stampa vogliamo fare”.
Se davvero s’innesca il dibattito tra ragazzi e ragazze sui loro desideri e sulle loro paure, va bene anche “scandalizzare” con linguaggi nuovi, diversi. Come accadde ai tempi della Zanzara, al liceo Parini di Milano negli anni sessanta, prima della “rivoluzione sessuale”. È successo anche di recente, quando in un liceo di Bologna la compagnia Kepler 452 ha riproposto a studenti e studentesse le domande che faceva Pier Paolo Pasolini nella celebre inchiesta Comizi d’amore. Hanno pubblicato un volantino con alcune delle frasi emerse nei laboratori e il progetto è stato subito sospeso. Per fortuna alcuni genitori hanno obiettato che se i ragazzi manifestano un disagio, magari anche in maniera inconsapevole attraverso le loro affermazioni, forse sarebbe giusto indagarlo.