Che si parli di giuoco, come provano a insegnarci i dizionari di buona reputazione e la stessa Federcalcio, o più prosaicamente di gioco, non c’è scampo: il football di casa nostra si è fatto di nuovo sorprendere con le mani nella marmellata. Certo, non si tratta di tutto il calcio, avendo anche noi la percezione, se non proprio le prove, che la stragrande maggioranza di quel complesso meccanismo che ogni settimana mette in moto migliaia di manifestazioni, appuntamenti, persone, è esente da intrallazzi, vicissitudini opache, scorretti tramestii. Cionondimeno, poiché come è noto il cattivo odore del pesce si avverte dalla testa, il malessere non può non cointeressare, coinvolgere, almeno sfiorare, tutto il sistema. Tanto che quest’ennesima crisi del calcio di vertice ha riproposto pari pari, come se il tempo non fosse passato, gli stessi interrogativi, gli stessi dubbi, le stesse angosce (né il termine paia eccessivo) che i media hanno rievocato sia citando crisi di non molti lustri indietro nel tempo, sia facendo ricredere quanti avevano messo in dubbio alcune pungenti osservazioni venute da persone “fuori dal coro”, per così dire.
Questa volta, a differenza di quanto accadde venti o quarant’anni fa, e stando a quanto sostenuto dalla psicologa Vera Slepoj, esperta di devianze e meccanismi di controllo sociale, “i soldi non c’entrano nulla” essendo in presenza di una vera e propria malattia, la ludopatia, che nascerebbe non “dalla sete di guadagno economico”, ma sarebbe – come ha spiegato in un’intervista al Giornale – “figlia di immaturità, noia e fame di vittoria emotiva. Questi ragazzi guadagnano milioni, sono delle star. Celebrati dai tifosi, coccolati da club e procuratori, sono malati di vittoria”. Uno di questi ragazzi è Nicolò Fagioli, che è stato squalificato per dodici mesi, cinque dei quali commutati in prescrizioni alternative, in aggiunta ad una ammenda di 12.500 euro. L’altro è Sandro Tonali che, stando al suo agente, “sta giocando contro la ludopatia la partita più importante. La sua esperienza servirà a salvare la vita a tanti ragazzi”. “Perché – citiamo ancora Vera Slepoj – il mondo del calcio è privo di qualsiasi codice etico-morale. Un ambiente dove invece del valore dell’aiuto vige il disvalore dell’omertà. L’importante è fare business. E ciò che è estraneo a questo meccanismo, va taciuto”.