IL PASSATO CHE NON PASSA

Gli ultimi anni di mio nonno furono ritmati da una sorta di lamentela che poi lamentela non era ma lo smarrimento di un uomo che si guardava attorno e non si ritrovava più. Diceva sommessamente, fra sé e sé: non capisco più il mondo. È ora di andare. Eppure era nato in un tempo dove le travi portanti della sua esistenza non erano tanto diverse da quelle di suo padre e dei suoi antenati. Per un miracolo si sarebbe potuti sparire dalla terra e tornare dopo cent’anni ritrovando lo stesso modo di vivere e pensare, le stesse abitudini, le stesse regole, lo stesso natale, la stessa fede.

Esistevano alcuni punti di riferimento immutabili, la famiglia, la scuola, il quartiere, il parroco, il medico. Il matrimonio supponeva la stessa casa dove sarebbero cresciuti i figli, la scuola era severa e non c’erano scorciatoie per avere una promozione, il telefono serviva per parlare, il Natale – anche per chi non credeva o credeva poco – aveva le stesse liturgie, il presepio, le luci intermittenti, il disco con “Tu scendi dalle stelle”, il bambinello che veniva deposto a mezzanotte del 25 dicembre.

Oggi le stesse persone che vivono nell’anno del Signore 2023 si trovano spesso sconcertate e si guardano attorno in un universo dove tutte le vecchie regole sono state non corrette ma divelte e dove la bussola è impazzita e oscilla tremolante fra nord e sud senza indicare una rotta.

Il matrimonio oggi – per ragioni giuste e comprensibili – non prevede più la coabitazione. Si vive spesso fra moglie e marito a grandi distanze, marito a Milano e moglie a Roma perché ciascuno non può rinunciare al proprio lavoro. Ci si vede di venerdì sera per ripartire domenica. Mi ha raccontato mio nipote che nella sua società di Londra hanno assunto una sociologa iraniana di Teheran e che il suo primo impatto con l’Europa, la sua prima e grande sorpresa è stata questo matrimonio europeo “a distanza” per lei inimmaginabile.

Anche il telefono non è più un oggetto amico. Impossibile parlare con un operatore perché ci si trova invischiati in una filastrocca di “prema uno, prema due, prema tre”. La voce umana – per motivi di bilancio – è scomparsa, remota, inudibile.

Ma soprattutto la scuola ha subito un rovesciamento di valori. Un ipotetico viaggiatore che tornasse dall’oltretomba, abituato ai vetusti codici morali della sua epoca si troverebbe a disagio, disorientato. Leggerebbe sui giornali che agli insegnanti si può anche sparare, che si possono aggredire e malmenare, insultare e svillaneggiare e che si sta pensando di dotarli di giubbotti antiproiettile. Ma c’è un’altra incredibile novità. Al diciotto politico dei tempi bui del terrorismo, s’è aggiunta oggi la “promozione per via giudiziaria”. Per quanto somaro sia un figlio basta adire il Tar o qualche altro tribunale e disporre di un buon avvocato per trasformare un ignorante in un alunno perseguitato da professori crudeli e perciò meritevole di promozione.

E giacché siamo al 25 dicembre non possiamo non ricordare quell’assessore (ma ormai sono in tanti) che vorrebbe cambiare nome al Natale con “Festa d’inverno” per non disturbare chi è di altra fede ma soprattutto per non offendere i musulmani, come se il Natale non fosse diventato oggi, per tutti, anche per chi non ha fede, il simbolo di una tradizione e nessun Paese può rinunciare alla sua storia e alla sua identità.

L’idea di queste poche righe, caro lettore, mi è venuta al mercato, ascoltando in pesante e irripetibile dialetto romano, le grida di una donna inviperita contro il progresso che parlava come mio nonno. Ecco perché talvolta il tempo che fu appare – giustamente o ingiustamente – un tempo idealizzato, forse per consolazione di un presente maldestro. Come diceva Francis Scott Fitzgerald “Continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.

L'ECO di San Gabriele
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