il libro di Giobbe non riflette semplicemente sul mistero del dolore, ma anche sulla gratuità della fede: la sofferenza umana è la porta per accedere alla fondamentale questione del “senso” della vita e della sua relazione con Dio
Un viaggio nella sofferenza
L’antica tradizione d’Israele ci ha lasciato in eredità una preziosa testimonianza riguardante il senso della sofferenza umana e la sua interpretazione nella fede: la vicenda umana e familiare di Giobbe. La complessità della figura di Giobbe caratterizza il percorso interiore dell’opera sapienziale, costituita da una cornice narrativa (Gb 1-2; 42; 42,7-17) e da un corpo centrale poetico, intessuto di una serie di dialoghi (Gb 3,1-42,6). La lettura del libro si trasforma in un “viaggio” dentro la vicenda umana dell’esistenza, segnata dallo scandalo del dolore innocente che grida “giustizia” e domanda “verità” nei riguardi di Dio. Per tale ragione il libro di Giobbe non riflette semplicemente sul mistero del dolore, ma anche sulla gratuità della fede: la sofferenza umana è la porta per accedere alla fondamentale questione del “senso” della vita e della sua relazione con Dio.
La felicità e la polvere
L’autore biblico pone in scena il protagonista del dramma, presentando il profilo di un uomo “integro, retto e timorato di Dio”, originario della terra di Uz, nel lontano Oriente. Fin dall’esordio del libro s’impone il contrasto tra la felicità umana e l’ingiusta sofferenza riservata a Giobbe, in uno scenario ideale che si alterna tra Cielo e terra. Dio accetta la scommessa del “satana”, che sfida a provare la fedeltà di Giobbe con ogni sorta di mali (cf. Gb 1,6-19). Così il perverso accusatore si accanisce sull’innocente, privandolo improvvisamente di tutti i beni, provocando la morte della prole e riducendo il suo stesso corpo in un’unica grande piaga riluttante. Da uomo riuscito e felice, Giobbe veste inaspettatamente i panni dell’uomo fallito e piagato, prostrato da una ripugnante malattia mortale (Gb 2,7). La reazione del sofferente è duplice: dopo aver benedetto Dio “sorgente della vita” (Gb 1,20-21), egli grida il suo male di vivere, ponendo interrogativi al lettore di ogni tempo: “Perché dare la luce a un infelice … a un uomo, la cui via è nascosta e che Dio ha sbarrato da ogni parte? Perché al posto del pane viene la mia sofferenza e si riversa come acqua il mio grido?” (Gb 3,20-26). La prostrazione del sofferente è accompagnata da una delle più impressionanti imprecazioni bibliche (cf. Gb 3,3-26): se il destino dell’uomo deve essere segnato da un dolore tanto grande, allora è meglio non essere mai nati! È meglio tornare alla polvere!
Alleati o nemici?
Giobbe riceve la visita di tre amici, mossi a compassione per il suo dramma. Seduti di fronte al giusto che soffre, Elifaz, Bildad e Zofar provano a spiegare quale senso assume la sofferenza nel progetto di Dio e quale logica sia alla base della benedizione e della maledizione dell’Onnipo-tente. Con motivazioni diverse i tre saggi sostengono la dottrina tradizionale della retribuzione, implicitamente ammettendo che la condizione di Giobbe sia da ascrivere alla sua debolezza umana. Per Elifaz il male è prodotto dell’uomo e conseguenza del peccato. Per tale ragione esso esige irrimediabilmente un castigo. Bildad invita a guardare oltre la sofferenza: è possibile recuperare la prosperità perduta attraverso la conversione e il pentimento. Zofar è convinto che solo la conversione del cuore può riscattare gli esseri umani dalla loro debolezza. In realtà la concezione della benedizione e della maledizione che fa da sfondo alle tesi dei tre compagni è concreta e materiale: l’uomo che agisce in conformità alla volontà di Dio viene da questi ricompensato, in caso contrario subisce il castigo. La ragione del dolore dell’uomo sta, dunque, nel peccato che egli ha commesso. Le tre posizioni degli amici si trasformano in un atto di accusa, che Giobbe rigetta con sdegno. Ribattendo ai suoi interlocutori, egli protesta la sua innocenza e rifiuta ogni forma d’interpretazione ideologica dell’agire di Dio nella storia. Anche l’intervento finale del giovane Eliu (cf. Gb 32-37) che legge il soffrire umano in prospettiva “pedagogica”, trova l’opposizione netta del nostro protagonista. Dal dialogo con gli amici, emerge un’immagine formale di Dio, costruita su una fede legalistica. In tal modo essi si trasformano in arroganti giudici del destino umano, presuntuosi interpreti del progetto divino che rimane loro oscuro.
La vera sapienza
L’ultima parte dello scritto sapienziale comprende l’intervento dell’Onnipotente, sollecitato apertamente da Giobbe: “Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco qui la mia firma! L’Onnipotente mi risponda!” (Gb 31,35). L’autore biblico riporta due splendidi discorsi (cf. Gb 38,1-40,5; 40,6-41,26) nei quali Yhwh parla e dà ragione al suo “servo Giobbe”, rammentandogli che l’uomo non può pretendere di governare l’universo. Il “silenzio di Dio” implica per il credente l’atteggiamento di contemplazione di un mistero che trascende l’uomo. Dio è colui che misura la terra e che guarda tutte insieme le costellazioni, colui che “abbraccia” l’infinito e conosce anche le più piccole cose. Il suo volto è quello del creatore e quello dell’architetto, che dà principio a tutto e predispone un progetto armonioso, staticamente inattaccabile ed esteticamente insuperabile. Tra i vari tentativi di affermare con certezza la “nozione” di Dio emerge l’attestazione che solo Giobbe nel suo grido di sofferenza ha detto su Dio la “verità”. La sofferenza è diventata per Giobbe una condizione di autenticità per purificare la fede e lasciarsi incontrare dal mistero dell’Onnipotente. Sono gli amici a essere lontani da Dio, mentre Giobbe si scopre il vero saggio, che impara dalla vita provata a entrare nell’incontro salvifico.
Dio è provvidenza
L’esito del dramma si racchiude nella risposta di fede che Giobbe dà all’Onnipotente: “Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile… Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto. Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere” (Gb 42,2.5-6). Siamo di fronte ad una “ridefinizione” dell’identità umana. L’uomo è chiamato ad abbandonare la trappola dell’autoreferenzialità per scoprirsi “creatura credente”. Alla fine del suo percorso Giobbe scopre la grandezza di Dio e della sua provvidenza. Se la sofferenza del giusto non può essere spiegata come una punizione di Dio, neppure la sua giustificazione e la sua nuova felicità possono essere considerate un premio a cui egli ha diritto. Il percorso esistenziale del libro è scandito in tre fasi. Il dialogo con i suoi amici (cf. Gb 4-27) è la via della purificazione; segue la fase dell’illuminazione (cf. Gb 38-41) dove Giobbe prende coscienza dell’agire “libero” del Creatore. Alla fine (cf. Gb 42) l’ultima fase è la via della comunione. È questa la chiave interpretativa della fede biblica: il totale affidamento della creatura al creatore. Il racconto si chiude con un “lieto fine”: Dio ristabilisce Giobbe nello stato originario e benedice di nuovo la sua condizione più della prima.