UN “MARCHIO” A VITA

Togliere un “Alice ti amo”, ad esempio, non è possibile, a meno di dolorosissimi ed estenuanti interventi. A frenare questa tendenza non bastano, oltre ai costi, neppure i possibili rischi per la salute evidenziati dall’Istituto superiore della sanità

Taluni sostengono che l’intelligenza media dei giocatori di sport come il volley e il basket sia superiore a quella media dei calciatori. Non siamo a conoscenza se al riguardo esistano studi scientifici, però guardando i recenti campionati europei di volley una differenza è apparsa netta: c’era una diversità estetica. Gli atleti, infatti, avevano gambe e braccia “pulite”, nel senso che erano come mamma li ha fatti. Nessuno aveva tatuaggi più o meno piccoli, più o meno diffusi come, ormai, se ne vedono in tanti nostri idoli in calzoncini sui prati verdi. Non solo loro: anche cantanti più o meno capaci, più o meno famosi sfoggiano pitture e scarabocchi sulla carne che spesso lasciano liberi solo pochi centimetri di corpo. Ancora: non solo loro. Ormai anche un qualsiasi cittadino si presenta come i calciatori, i cantanti, gli influencer (qualsiasi cosa significhi): più che le loro capacità intellettive, tengono a dimostrare quanto siano pitturati, scarabocchiati sul corpo. Una moda che da una ventina d’anni imperversa e impazza in modo sempre più consistente, tanto da indurre i non “imbrattati” a chiedersi chi siano i “normali”. Prima non si vedevano persone tatuate per strada. Questa differenza culturale e sociale non è né migliore né peggiore, ma rende oggi il tatuaggio un’industria. Con i consumi cambia tutto. Crescono l’individualismo e l’accelerazione del modo di vivere, il pallino dell’apparenza e della moda e anche un certo culto della gioventù come se fosse inseparabile dal culto del corpo. Con l’invasione dei social network e di certi standard, la stragrande maggioranza si fa tatuare per moda o per imitazione, il che diventa contraddittorio perché questo modo di differenziarsi è diventato qualcosa di poco personale.

Un grammo di storia. La pratica del tatuaggio risale almeno al Neolitico (uomini molto primitivi…), come rivelano antichi resti umani mummificati. Nel 2015, una rivalutazione scientifica dell’età delle due mummie tatuate più antiche conosciute ha identificato in Ötzi (una mummia dell’Età del rame) l’esemplare più antico allora conosciuto. Questo corpo, con 61 tatuaggi, è stato trovato incastonato nel ghiaccio glaciale delle Alpi ed è stato datato al 3250 a.C. Nel 2018, i tatuaggi figurativi più antichi del mondo sono stati scoperti su due mummie egiziane datate tra il 3351 e il 3017 a.C. Gli antichi greci e romani usavano il tatuaggio per penalizzare schiavi, criminali e prigionieri di guerra. Sebbene noto, il tatuaggio decorativo era disprezzato e il tatuaggio religioso era praticato principalmente in Egitto e Siria. Il tatuaggio era comune tra alcuni gruppi religiosi nell’antico mondo mediterraneo; nel 316 l’imperatore Costantino rese illegale tatuare il volto degli schiavi come punizione. Le religioni monoteiste vietano i tatuaggi in quanto li ritengono una pratica che danneggia il dono di Dio, cioè il corpo. Nel Levitico (19,28) è scritto: “Non vi farete incisioni sul corpo per un defunto, né vi farete segni di tatuaggio. Io sono il Signore”.

A dispetto di ciò e dell’estetica, sembra ci sia una gara ad averne tanti. Sono lontani i giorni in cui era possibile cavarsela con una semplice farfalla o un fiore. Le mode intercorse – i teschi, i braccialetti, gli arcobaleni, i personaggi e così via – restano sulla pelle e diventano, col passare degli anni, reperti di una sorta di archeologia personale. Gli anziani sono restii a tatuarsi non soltanto perché quando loro erano giovani si tatuavano solo persone ritenute poco perbene, ma anche perché hanno vissuto abbastanza a lungo per sapere che col tempo le circostanze della vita cambiano e togliere un “Alice ti amo” non è possibile (a meno di dolorosissimi ed estenuanti interventi). Da un sondaggio – condotto dalla società tedesca Dalia Research su 18 Paesi – è emerso che il 38 per cento della popolazione mondiale ha almeno un tatuaggio. Di loro, la maggior parte non è soddisfatta di almeno uno dei propri tatuaggi, un quarto degli intervistati ne ha solo uno e il resto ne ha due o più. Ma ci sono limiti a ciò che ci può tatuare? Certo: in Italia sono proibiti, su qualsiasi parte del corpo, i tatuaggi che abbiano contenuti osceni, con riferimenti sessuali o razzisti, di discriminazione religiosa o che possano portare discredito alle istituzioni della Repubblica e alle Forze Armate. Ma chi se ne accorge? Pur di farsi “marchiare” non si guarda neppure al portafoglio. Basti pensare che un tatuaggio di 5 cm x 5 cm costa dai 50 ai 180 euro; uno con dimensioni standard, indicativamente 30 centimetri di lunghezza, da 500 a 1.500 euro fino a 4.000 per quelli più complessi. Prezzi che però, a seconda del tipo, della grandezza, dei colori e della bravura del tatuatore possono superare anche i 20-30 mila euro. Il problema economico non riguarda certo sportivi, cantanti compagnia milionaria, ma la gente normale: ce n’è tanta che soffre per arrivare alla fine del mese, ma non rinuncia a sprecare centina di euro per un disegno o una frase che le vicissitudini della vita renderanno ridicole in futuro. Ma tant’è: c’è addirittura chi ha il corpo tatuato al 100 per 100: un artista di strada australiano che vive della bontà dei passanti.

A frenare questa moda non bastano, oltre ai costi, neppure i pericoli per la salute. L’Istituto superiore della sanità ha evidenziato i possibili rischi associati al tatuaggio e al trucco permanente (Permanent Make Up, PMU): possono essere causati dalla contaminazione microbiologica, dalla presenza di sostanze chimiche pericolose negli inchiostri o dalle procedure stesse, quando non vengono eseguite da professionisti preparati, in adeguate condizioni igieniche e in strutture idonee. Con la procedura del tatuaggio viene lesa la barriera cutanea e la ferita può anche essere soggetta a infezione, in particolare se non vengono rispettate raccomandazioni appropriate sull’igiene e sul dopo intervento. Da un anno è in vigore un Regolamento dell’Unione Europea che vieta 27 pigmenti colorati che contengono isopropanolo, una sostanza contenuta nella maggior parte degli inchiostri per tatuaggi, a esclusione del nero (nel quale è presente in quantità molto basse) classificata tra le sostanze potenzialmente cancerogene.

Niente da fare: per taluni farsi tatuare cose che spesso neppure vedono è più forte di loro.

L'ECO di San Gabriele
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