LA SALVEZZA DELLA MEMORIA

Mussolini è morto ne-gli anni cinquanta. Hitler è fuggito in Sudamerica. Vittorio Emanuele III era re di Grecia. Sono alcune delle risposte che ho ricevuto in una riunione di studenti, ragazzi più o meno di sedici anni che leggono più social che libri. Ricordo un giovane fotografo che si era presentato dopo i diciotto mesi di praticantato per l’esame di giornalista. Sembrava uno di buona volontà, e pensai di salvarlo. “Stalin?”, chiesi. Risposta: “È un dittatore.” “Ma almeno dimmi di che Paese”. “Direi russo, ma non ne sono sicuro”.

La nostra scuola inseguendo le materie tecniche e le lingue straniere (ma il difetto è largamente condiviso in Europa) ha dimenticato completamente la storia o l’ha ridotta a un gioco di quiz, dove è nato Napoleone, quando è morto Cavour. E ha dimenticato quella materia che getta luce sul nostro passato, chi ha ragione e chi torto e ci fa capire chi sono stati e che hanno fatto i nostri nonni o bisnonni, le loro sofferenze, le loro speranze, le loro illusioni, i loro sogni.

Per fortuna non abbiamo più indagato le questioni dinastiche ma abbiamo cominciato a occuparci anche della povera gente. Geremek che fu anche consigliere di Lech Walesa negli anni ottanta, ha scritto una magistrale Storia della povertà in Europa.

Anche in questa guerra che sta insanguinando l’Europa, l’Ucraina, sento parlare di armi, di nuovi missili, di razzi supersonici ma pochi (nemmeno i grandi quotidiani) vanno a frugare in quello che successe in quel fatidico anno 1989 quando cadde la cortina di ferro o in quell’altro anno memorabile 1991 quando si frantumò l’Unione Sovietica. È solo indagando quegli anni e i colloqui fra Gorbaciov e Bush (padre) che si può capire ciò che abbiamo perso, il sogno della fine dei blocchi che oggi abbiamo ricreato, dividendo di nuovo con un altro muro l’Europa.

I cinesi che si avviano a essere la più grande potenza mondiale (dicono gli esperti fra due, tre decenni) insegnano la storia non solo come strumento per capire gli eventi alle nostre spalle ma per prevedere ciò che succederà domani, secondo l’insegnamento del grande maestro Confucio che ebbe a dire: “Studia il passato se vuoi prevedere il futuro” e quel grande narratore che fu Cervantes soleva dire che la storia era “avvertimento del futuro”.

Capire il passato è anche la migliore strada della diplomazia. Gli americani che vinsero la guerra e occuparono il Giappone forse con meno presunzione e più rispetto della realtà non avrebbero predicato ai giapponesi che l’imperatore non aveva niente di sacro ma era un comune mortale, cancellando con un colpo di spugna quindici secoli. Gli inglesi, che nella diplomazia sono stati sempre grandi maestri, non si sono mai impicciati nei miti e nelle credenze dei popoli occupati, ma hanno “rispettato la storia” non imponendo la loro visione del mondo a differenza degli Stati Uniti che hanno preteso di esportare in tutto il mondo i loro dogmi teologici.

Nella scuola, non solo italiana, c’è stato un abbassamento di cultura storica, e se io paragono gli anni in cui ero studente con quello che studia oggi mio nipote, misuro una distanza enorme. La motivazione che oggi si dà è che la storia non serve più, si vive anche senza storia e quello che serve per il lavoro sono gli strumenti tecnici e non quelli umanistici. Eppure anche nelle scelte politiche che ognuno fa secondo i propri criteri la storia dovrebbe essere un elemento importante. Nel giudicare il ventennio non si può prescindere dai tanti lutti che hanno procurato le guerre, a cominciare dalla campagna di Grecia e da quella atroce della campagna di Russia dove morirono congelati, nelle steppe russe, migliaia di soldati.

La memoria del tempo è una realtà che non si può cancellare perché non si possono recidere i legami che ci annodano al passato. Ecco, lo dirò alla prima occasione a mio nipote. Sempre che mi ascolti.

L'ECO di San Gabriele
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