FONDAMENTALE O PERICOLOSA?

UN TRISTE CASO DI CRONACA ACCENDE I RIFLETTORI SUL MODELLO ROOMING-IN PROMOSSO DA GINECOLOGI E PEDIATRI E CONDIVISO ANCHE DALL’OMS E DALL’UNICEF. LE CRITICHE, PERÒ, NON MANCANO… Un caso di cronaca tutto ancora da chiarire ma che ha scoperchiato un vaso di pandora di reazioni, dibattiti, prese di posizione. Malasanità? Personale insufficiente negli ospedali? O il modello del rooming-in, la pratica, promossa da ginecologi e pediatri e condivisa anche dall’Oms e dall’Unicef, che consente alle neomamme di tenere da subito dopo il parto i propri neonati con sé in stanza, 24 ore su 24 è da rivedere radicalmente? C’è chi ha criticato il modello della mamma in forma fin dai primi istanti del parto e chi ha chiesto che chi ha appena partorito venga assistito, se in difficoltà, da un familiare e nel caso il neonato venga portato al nido almeno finché la madre non si è ripresa.

Ospedale Pertini di Roma, notte tra il 7 e l’8 gennaio scorso. Una donna che ha appena dato alla luce un maschietto è alle prese, come tutte le altre, con i suoi primi giorni da mamma: ne sono trascorsi tre dal parto, ma non sono bastati a farle recuperare le forze, dopo un travaglio durato quasi diciassette ore. Il bimbo le viene messo accanto in stanza, nella culla apposita, quella in cui secondo le regole del rooming-in di cui si diceva il neonato andrebbe sistemato sempre dopo l’allattamento (e soprattutto prima di dormire) proprio per evitare che possa rimanere schiacciato nel letto: un gesto previsto da un protocollo rigido. Tuttavia, nel via vai di un reparto che a volte può essere molto affollato e a volte sguarnito di tutto il personale necessario, può sfuggire anche all’occhio dell’operatrice più attenta. Ecco allora che la mamma, trent’anni appena compiuti, si addormenta col suo piccolo accanto a lei. Quando riapre gli occhi – è passata da poco la mezzanotte, è proprio un’infermiera a vedere il suo corpo sopra quello del neonato e a scuoterla – si accorge che lui non respira più. La donna ha affermato di aver chiesto spesso aiuto al personale per gestire il bambino, ma di essere rimasta inascoltata. A rafforzare questa tesi, fatta di omissione nei controlli e di abbandono, c’è il fatto, emerso dopo, che sarebbe stata una puerpera ad accorgersi del tragico incidente e a lanciare l’allarme. Il caso è finito sul tavolo della Procura di Roma che ha aperto un’inchiesta contro ignoti per omicidio colposo in cui la madre è parte lesa. Il ministero della Salute ha chiesto alla Regione una verifica immediata; gli esperti ricordano che esiste anche il “collasso neonatale improvviso”, una sindrome rarissima che colpisce i neonati nei primi giorni di vita e assomiglia al soffocamento.

Le critiche sui social

Sui social media, il tribunale del popolo dove molti straparlano senza conoscere i fatti, la donna è stata bersagliata di critiche e cattiverie gratuite perché “colpevole” di essersi addormentata con il figlio in grembo, perché “incapace” di sopportare lo stress della gravidanza.

È emerso uno spaccato di una maternità tutta legata al neonato e non (anche) al benessere psico-fisico delle donne, al diritto a essere stanche e spossate dopo il parto, anche a non essere felici, nell’immediato, per la nascita del figlio, sindrome oscura e rara da cui origina spesso la depressione post partum, la quale, se non vengono colti i segnali in tempo, rischia di travolgere la vita della madre. “Questi titoli – ha scritto Giovanna Gallo su Cosmopolitan – hanno avallato dinamiche culturali e sociali dure a morire strettamente legate al mito della maternità intensiva, che trasforma le madri in mero contenitore (di vita prima, di latte dopo), spinge sull’allattamento a richiesta anche a costo di tracolli emotivi della puerpera, mette da parte i bisogni del genitore in virtù del benessere del neonato ignorando spesso i segnali precoci di baby blues e depressione, esclude totalmente dalla narrazione i padri, non ammette che non si possa essere felici in modo totale dopo l’arrivo del bambino, oppure stanche, snervate, poco in forma”.

Tuttavia, in molti hanno solidarizzato con la madre che ha visto morire il figlio in braccio. Come “Mama Chat”, un’associazione che dal 2017 supporta donne tra cui mamme e famiglie in difficoltà, che ha lanciato una raccolta firme sulla piattaforma online Change.org contro quella che viene definita “la violenza ostetrica” chiedendo che “i protocolli ospedalieri siano aggiornati e che sia consentito l’ingresso h24 a un accompagnatore, garantendo l’accesso in tutti gli ospedali italiani del partner o familiare al momento parto e durante tutta la degenza”. I promotori hanno sottolineato quanto “dalla pandemia negli ospedali di tutta Italia sono entrate in vigore regolamenti che oggi persistono senza una reale necessità sanitaria o organizzativa per le strutture ospedaliere”. La petizione chiede inoltre che “vi siano più controlli e supporto alle famiglie soprattutto nei momenti parto e post-parto, i quali sono estenuanti, fragili e difficili da affrontare, siano guidati dagli esperti anziché ostacolati, con cura e con consapevolezza, mettendo i bisogni delle mamme e l’assistenza a loro al centro” e sottolinea che “la violenza ostetrica che permea quotidianamente le strutture Italiane miete vittime inconsapevoli creando traumi psicologici gravi che hanno effetti non solo sulle mamme ma anche sui loro bambini”.

La fragilità negata

La vicenda di Roma intreccia diverse questioni. La prima è che i modelli più in voga della maternità intensiva, alla quale molte donne si sono “ribellate” raccontando le loro esperienze drammatiche, sono spesso legati a un’estetica idilliaca dell’esperienza del parto, in cui tutto è perfetto, il corpo della donna sa perfettamente cosa fare e la natura fa il suo corso. Le storie in arrivo dalle corsie degli ospedali dove migliaia di bambini nascono ogni anno, figli di madri spesso lacerate e stremate che pure devono essere performanti un secondo dopo essere uscite dalla sala parto, raccontano però un’altra verità. Come ha raccontato anche il ministro alla Famiglia, alla Natalità e alle Pari Opportunità Eugenia Roccella: “Le donne dopo avere partorito sono in un momento molto delicato – ha detto richiamando un’esperienza personale – mi ricordo che quando è venuta una mia amica, non mia madre perché non era molto materna, non le interessava la maternità, io subito dopo il parto ho detto ‘non fate figli’, questo è stato il mio commento. Ovviamente poi li ho fatti. È evidente che siamo in un momento di grande fragilità, di estrema stanchezza, anche di grande felicità, di bisogno, di compagnia e di accudimento. Anche perché oggi le donne non sono più abituate ad avere un bambino in braccio. Quella catena di saperi femminili si è interrotta”.

Sulle soluzioni da adottare in aiuto delle madri, Roccella ha detto che per le partorienti bisogna “ricostruire quella rete che prima era una rete spontanea di parentela e di comunità, che adesso non c’è più, ricostruirla attraverso un welfare di prossimità. Per esempio si parla tanto di telemedicina. Io stessa sono andata dal pediatra mille volte in più di quello che sarebbe stato necessario. Allora perché non avere un collegamento con l’ostetrica, con qualcuno in ospedale che quando hai dei dubbi può dare dei suggerimenti, ti dice cosa fare”.

Questa tragedia ha innescato un dibattito anche sulla pratica del rooming-in. Da portare avanti, rivedere o eliminare totalmente? Gli addetti ai lavori hanno sottolineato i vantaggi.

Per la Società Italiana di Neonatologia (Sin), la Società Italiana di Pediatria (Sip), la Società Italiana di Ginecologia ed Ostetricia (Sigo) e l’Associazione Ostetrici e Ginecologi Ospedalieri Italiani (Aogoi) la pratica va mantenuta ma l’implementazione del rooming-in per essere appropriata deve fare in modo “che le famiglie siano adeguatamente informate, coinvolte e supportate, e che gli operatori sanitari offrano un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica. La gestione separata di madre e neonato, prevalente in epoche passate”, hanno sottolineato le associazioni, “ostacola invece l’avvio della relazione genitore-famiglia-neonato, è contraria alla fisiologia, anche dell’allattamento, e non garantisce da eventi neonatali imprevisti e tragici” mentre la “condivisione del letto fra una madre vigile e un neonato sano, messo in una posizione di sicurezza, è un fatto naturale, pratico, indiscutibile”, le società scientifiche però attualmente raccomandano di evitare la condizione del co-sleeping (ovvero del dormire insieme), giudicata non sicura, suggerendo di riporre il bambino a fine poppata nella propria culla, in particolare quando non siano presenti altri assistenti. Questa prudenza è giustificata ben oltre la permanenza di mamma e bambino nel punto nascita e interessa tutti i primi sei mesi di vita. La carenza a livello nazionale del personale sanitario, pesantemente sofferta anche nell’area del percorso nascita, concludono, “non è però motivo sufficiente per giungere ad ipotizzare proposte assistenziali involute e di minore qualità come la gestione separata di madre e bambino”.

La carenza di personale

Anche la Federazione nazionale degli ordini della professione di ostetrica (Fnopo) ha sottolineato gli aspetti positivi del rooming-in giudicato “vantaggioso per la creazione della nuova diade (triade, se consideriamo anche la presenza dell’altro genitore) e per la promozione dell’allattamento al seno e dell’accudimento precoce, quando le famiglie sono state adeguatamente informate, coinvolte e supportate dai professionisti sanitari in grado di offrire un’assistenza per quanto possibile individualizzata ed empatica” ma ha denunciato la carenza di personale negli ospedali italiani: “Una recente pubblicazione dei dati Ocse – ha sottolineato la Fnopo – ha evidenziato una carenza di circa 8.300 ostetriche collocando la situazione italiana al di sotto della media europea. È un dovere del Servizio sanitario nazionale e regionale migliorare l’organizzazione dei Punti nascita sia attraverso l’utilizzo di tecnologie, strumentazioni e strutture, sia attraverso l’aumento del numero di ostetriche”.

Per la presidente della Fnopo, Silvia Vaccari, il caso di Roma è stato strumentalizzato per attaccare i medici: “Noi ostetriche lavoriamo sotto organico – ha detto – oggi in Italia siamo 20.885, ma di queste il 20 per cento è in pensione o è andata all’estero, quando non ha proprio cambiato mestiere. Se dovessimo fare un calcolo sulla base dei fabbisogni delle donne, diciamo che all’appello ne mancano altrettante. Ventimila. Per non parlare del fatto che sono anche mal distribuite, sia negli ospedali sia nel territorio”, ha aggiunto Vaccari, evidenziando che “il Nice organizzazione inglese di fama mondiale che promuove le linee guida per la buona pratica clinica, ha stabilito che ogni donna in travaglio dovrebbe essere assistita da un’ostetrica. Noi invece siamo lontanissimi da un rapporto uno a uno. Abbiamo strutture dove a turno tre ostriche devono seguire tremila parti l’anno”. In una donna dopo aver messo al mondo un figlio, “può far subentrare quelli che in gergo chiamiamo ‘baby-blues’, un sentimento misto di ansia e melanconia, che può trasformarsi in psicosi e sfociare nella depressione. Per questo dovrebbero essere poi seguite in casa una volta dimesse”.

Il Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza, ndr) “e il decreto che riforma l’assistenza territoriale prevedono che i professionisti vadano a prestare assistenza a casa delle persone. E questo vale anche per le ostetriche. Il ministro si è mostrato disponibile a esaminare le nostre proposte su organici e formazione. Ma servono soldi e su quelli decide il ministero dell’Economia”.

L'ECO di San Gabriele
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