Per vivere sereni è importante tenere sotto controllo le situazioni in cui ci troviamo. Guardare in faccia i fenomeni che ci coinvolgono. Dare un nome alle emozioni che ci attraversano. Da due anni viviamo intrappolati in questa pandemia Covid 19 che rende difficile capacitarsi di quel che sta succedendo e ansiosi per quello che potrebbe accadere. Si ha l’impressione di vivere dentro una bolla, o sotto una cappa che sarà pure di vetro perché ci lascia muovere e ci fa vedere tutto, ma frena il bisogno di libertà e di slancio creativo. Pare che venga meno il respiro, come di fatto avviene con le mascherine, e com’è appunto il culmine della pandemia quando prende possesso delle persone. Le norme dell’emergenza pongono limitazioni nette in tutti gli ambiti dei bisogni e dei rapporti sociali, il lavoro, la scuola, lo studio, lo sport, il divertimento, le frequentazioni amicali, la pratica religiosa. Aumentano le percentuali di chi, non potendone più, organizza ribellioni o cade in depressione, fino alla scelta di farla finita. Fa impressione l’incremento dei suicidi, specie tra gli adolescenti. La descrizione del disagio personale e sociale può continuare a lungo.
La pandemia sta facendo male alla società, in particolare alla chiesa, indebolendo la resistenza nella fede. Andate in crisi tutte le relazioni, si rallenta anche quella con Dio. Non come rifiuto, ma come mancanza di fiducia. Non ci si sente protetti. La frustrazione del bisogno di protezione e di abbraccio di un Dio paterno e materno nel tempo della prova. La fede fiacca non sente più l’attrazione della comunità, compresa quella eucaristica della domenica.
Che cosa succede? Bisogna lasciarsi morire senza reagire, perché la situazione è lacerante per i nostri rapporti, la nostra economia e la nostra salute? O perché l’occupazione è sempre più aleatoria e le bollette si gonfiano a dismisura? La struttura intima dell’essere umano, e soprattutto il dono della fede possono fornire l’energia per sottrarsi al precipizio dello scoraggiamento e della negatività. Se morte è, deve essere morte per la vita, sia nella parzialità del quotidiano che nella totalità della fine. L’esistenza sulla terra, non solo quella umana, è un processo di rigenerazione, di vita che si sviluppa attraverso dinamismi di morte che producono risorse vitali. Ce ne rendiamo conto col passare degli anni, ma quando i cambiamenti avvengono in modo sconvolgente e rischiano di soffocare la sopravvivenza dobbiamo prenderne possesso e guidarli verso nuovi orizzonti di vita. Per riuscirci bisogna essere consapevoli che possiamo farcela. Se non possiamo evitare i mali, possiamo viverli bene.
Quello che sta accadendo è la nostra storia e la nostra sfida. È qui che dobbiamo cavarcela per realizzarci come esseri umani di questo ambiente e di questa cultura. Ne riporteremo ferite, ma si trasformeranno in energie di futuro. In questa reazione bisogna stringersi insieme a tutti i livelli, familiare, nazionale, continentale, cosmico. Isolarsi vuol dire mettersi in pericolo di combattersi. Come papa Francesco sempre ci ricorda, bisogna essere aperti ai bisogni degli altri, disposti a condividere e a prendersi cura. Sarebbero germi di risurrezione nel contesto in cui tante cose sembrano morire. Come cristiani non dobbiamo dimenticare che portiamo nel nostro corpo (senso biblico, la totalità dell’esistenza) la passione di Cristo, ma nello stesso tempo sperimentiamo i riverberi della sua risurrezione, che sono i sacramenti, la preghiera, la parola di Dio, l’amore vicendevole, la gioia della fede.
Dopo le tribolazioni, nuove speranze. Anche sulle macerie rinascono i fiori