WASHINGTON E TEHERAN SI STRINGONO LA MANO

L’aggettivo “storico” è stato usato a Washington e a Teheran per definire l’accordo, concluso il 2 aprile scorso a Losanna, con cui, disciplinando la ricerca nucleare iraniana, si limita il rischio che il regime degli ayatollah possa costruirsi un’atomica a scopi bellici. L’importanza del risultato è provata da un fatto apparentemente marginale: per la prima volta dopo 36 anni – da quel 1979 che segnò la rottura dei rapporti con gli Stati Uniti – alla tv iraniana è apparso il volto di un presidente americano, Barack Obama, che in diretta si è felicitato per il raggiungimento dell’intesa.

Dopo diciannove mesi di una trattativa che ha superato crisi, irrigidimenti, sospensioni e difficoltà di ogni genere, la delegazione dei “5+1” (le potenze atomiche Stati Uniti, Cina, Russia, Gran Bretagna e Francia più la Germania), in un serrato confronto con i negoziatori di Teheran, ha portato a casa un obiettivo sul cui raggiungimento ogni dubbio era lecito. Perché è stato duro convincere l’Iran a rinunciare a una serie di procedure tecniche (peraltro molto avanzate) in grado di ottenere l’atomica “da guerra”, a limitare a un terzo le capacità di arricchimento dell’uranio necessarie per la bomba, a disporre ispezioni senza ostacoli da parte dell’apposita agenzia delle Nazioni Unite, l’Aiea, in cambio dell’abrogazione di sanzioni economiche che contro Teheran si sono accumulate in trent’anni da parte della comunità internazionale. I dettagli del documento conclusivo dovranno essere precisati entro la fine di giugno. In tre mesi di trattative che si annunciano altrettanto dure di quelle che hanno portato all’accordo di massima.

La partita, quindi, non è finita, ma a questo punto resta per chiunque difficile assumersi la responsabilità di tornare alla situazione precedente di muro contro muro. Lo sarà per l’Iran, asfissiato dall’embargo che gli ha impedito di vendere buona parte del petrolio che produce (con la perdita di un milione di barili al giorno, fra i 25 e i 30 miliardi di dollari l’anno), scaricando sulla popolazione il peso delle difficoltà economiche e di una inflazione a due cifre: tant’è vero che all’annuncio dell’intesa la gente è scesa in strada inscenando caroselli di gioia. L’eventuale fallimento provocato dalla controparte (negli Stati Uniti c’è una forte opposizione politica dei repubblicani, in maggioranza alle camere, mentre l’opinione pubblica è a favore) non sarebbe giustificato a livello mondiale e condurrebbe a esasperare ulteriormente la situazione in tutta l’area mediorientale: come se in essa ci fosse bisogno di altri conflitti.

Non tutti, comunque, si sono compiaciuti del risultato. Estremamente polemico il commento del primo ministro israeliano Benyamin Netanyhau: Teheran, prima o poi, avrà la bomba, e questo è un rischio mortale per il popolo ebreo. Quasi compatta dietro di lui la maggioranza del paese: del resto il pericolo dell’atomica iraniana è uno dei temi sui quali il suo partito ha vinto, contro ogni pronostico, le recenti elezioni politiche. Altrettanto costernati l’Arabia Saudita e gli Emirati del Golfo (a parte il sultanato dall’Oman). Nel mondo islamico, peraltro, è secolare il contenzioso politico e religioso fra l’Iran, di antica civiltà persiana e di confessione sciita minoritaria, e gli arabi, con la loro maggioranza sunnita; una divisione che ha condotto, a partire dalla morte di Maometto, a conflitti sanguinosi. Ancor oggi, quella rivalità interreligiosa alimenta la maggior parte dei feroci comportamenti, non soltanto contro i cristiani ma anche nei confronti dei musulmani moderati, in Siria, in Libia, nel Corno d’Africa, in Nigeria, nello Yemen, e giustifica l’invocazione della guerra santa (in verità nella ricerca di situazioni di potere) da parte dei seguaci del cosiddetto Califfato.

Bisognerà ora vedere in quale modo il presidente Obama riuscirà a mandare in porto l’intesa con Teheran, nonostante l’ostilità, di cui abbiamo parlato, dei repubblicani e la capacità di pressione della lobby ebraica. Ma anche a rischio di raffreddare i rapporti con alleati tradizionali come l’Arabia Saudita e l’Egitto, imbarcati nello Yemen in un conflitto che vede come palesi avversari gli iraniani, accorsi a sostegno della minoranza sciita ribelle al potere sunnita. Il timore, denunciato anche da Netanyahu, è che il regime degli ayatollah, rafforzato economicamente dall’abrogazione delle sanzioni, utilizzi quei maggiori mezzi sia per minacciare Israele, sia per sostenere i propri alleati nelle guerre per interposta persona condotte nell’ intero arco mediorientale.

Senza contare un ulteriore pericolo da non sottovalutare: Arabia Saudita, Egitto, Turchia – cioè le nazioni di maggior peso nell’area dell’islam – potrebbero chiedersi: perché l’atomica non anche a noi? Le capacità finanziarie non mancherebbero, specialmente ai sauditi, che già sono fra i maggiori acquirenti di armi nel mondo, dopo la Cina, mentre con l’avvento al trono del  nuovo re, Salman bin Abdelaziz al Saud, si precisa la strategia di una maggiore autonomia nei confronti degli Stati Uniti. È ancora tutto da vedere; si spera che l’aggettivo “storico” attribuito all’accordo di Losanna rimanga nel suo significato più positivo.