Vestire i nudi, accogliere i forestieri

L’acqua e il cibo sostengono il corpo dall’interno, una casa e un vestito lo riparano dall’esterno. Prendersi cura della persona vuol dire avere ben presenti queste esigenze del suo essere, a partire dalle molte dimensioni in cui si manifestano la corporeità e la spiritualità. In modo del tutto particolare il vestito rappresenta così un mezzo al servizio della persona, poiché, di fatto, essere vestiti o essere nudi coglie almeno tre aspetti o significati della vita umana. Il vestito protegge dalle intemperie, copre l’intimità, comunica identità.

Ora, perlomeno per le necessità basilari, la distribuzione dei vestiti ha una buona diffusione nel mondo. Ciò grazie anche all’organizzazione di raccolta di abiti usati che, già solo in Italia, consente il riutilizzo di circa 80mila tonnellate di indumenti ogni anno. E si potrebbe moltiplicare ancora questa cifra con una migliore distribuzione dei cassonetti di raccolta che le varie associazioni collocano nei territori comunali. Gli abiti in tal modo sono dati ai più poveri, oppure rivenduti per finanziare progetti umanitari, oppure ancora riciclati favorendo una funzione ecologica non indifferente.

Assicurato però uno straccio addosso, i valori simbolici e comunicativi dell’abito non sono ancora esenti dal rischio “nudità”. Tradizioni molto diverse sfilano infatti per le strade del mondo, veicolando messaggi di oppressione e di violenza sia quando l’abito copre sia quando non copre. L’abito che unisce è preferibile a quello che divide, così come quello che identifica dignità, sobrietà e bellezza è migliore del suo opposto deprimente e immorale. Ma ciò è lontano dal vedersi nella realtà.

Molte allora sono le nudità su cui la misericordia chiede di intervenire offrendo l’abito migliore. Non ultime poi sono quelle morali e spirituali. In quante occasioni infatti si vedono gli sciacalli della vita condurre in piazza i difetti e gli errori altrui, veri o presunti, mettendo a nudo con l’unico scopo di umiliare, sottomettere, vincere. La misericordia non è quella che “tutto copre”?

Dunque con la propria persona, con i propri atteggiamenti e con il cuore si può e si deve essere vestito ed essere riparo. Dal cuore nascono infatti i sentimenti che proteggono e la cultura attenta ai più deboli. Ancor più, poi, questo deve accadere quando è un tetto sulla testa quello che manca e più dura è l’esperienza del mondo che non accoglie e non ama. Offrire un riparo, una casa, una stanza è gratuità non business, è ospitalità non competizione.

L’umanità oggi può viaggiare in breve tempo attraversando il mondo intero su comodi aerei. Sono quindi certamente cambiate le difficoltà dei viaggi del passato, in cui ci si trovava a essere forestieri in pericolo di essere assaliti, pellegrini senza navigatore satellitare alla ricerca di un rifugio per la notte. Eppure non sono diminuite le mancanze di accoglienza, le persone senza amici e senza tetto. Sono forestieri i vicini di casa, chiunque passa oltre il cancello e il cane e la telecamera di sorveglianza a circuito chiuso. Sono forestieri i diversi, i profughi, tutti quelli che non sono accolti, compresi i bambini non nati. Un mondo avido di “proprietà” ha generato inospitalità.

Il giubileo della misericordia può essere perciò l’opportunità di un giorno per dare un vestito o un riparo ma è certamente, e ancora di più, una disposizione perenne a dare protezione e rifugio, a dare accoglienza e amicizia. Essere casa ed essere riparo, questo è il giubileo che Dio vuole. Il cristiano è chiamato allora “a portare il lieto annunzio, l’anno di grazia del Signore, a dare una corona invece della cenere, olio di letizia invece dell’abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto” (cfr Isaia 61,1-3).

Frutto del giubileo è infatti un paese dove abitare felici “ricostruiranno i vecchi ruderi, restaureranno le città desolate, i luoghi devastati dalle generazioni passate. Ci saranno estranei a pascere le vostre greggi e figli di stranieri saranno vostri contadini e vignaioli” (4-5).