UNO e TRI…O

intervista a GIACOMO PORETTI
By Gino Consorti
Pubblicato il 2 Dicembre 2015

Che bella la vita! La spensieratezza e lo scorrere sereno dell’oratorio dove s’incrociano sogni e linguaggi del cuore. No, non un prolungamento della sagrestia o un’isola incantata ma un luogo dove al centro c’è un progetto educativo fatto di relazioni e confronti con l’obiettivo di intercettare le attese e i bisogni dei giovani delineando programmi di vita. D’un tratto, però, come un colpo di vento, l’arrivo dell’adolescenza che scompiglia sogni e progetti… L’ideologia del comunismo prende il posto dell’oratorio e la cosiddetta stratificazione sociale egualitaria avrebbe dovuto rivoluzionare il mondo regalando più speranze a tutti. E anche risolvere interrogativi e dubbi esistenziali. Un’idea e un modello di società che avrebbero sospinto, come bolle di sapone al vento, sogni e progetti di un’intera generazione. Utopia o speranza realizzabile? Alla storia l’ardua sentenza… Nel frattempo i sogni di Giacomo Poretti – è di lui che stiamo parlando – il 33,33 per cento dello straordinario trio comico più famoso d’Italia, Aldo, Giovanni e Giacomo – vanno nuovamente in frantumi. Il cielo torna carico di nubi violacee e come d’incanto riaffiorano dubbi, incertezze, interrogativi… Che bella la vita! Avendo intanto abbandonato gli studi da geometra e non potendo trascorrere la vita girandosi i pollici, per il giovane sognatore arriva il momento di indossare la tuta da lavoro. Prima quella da metalmeccanico, poi il camice da infermiere… Esperienze diverse che arricchiscono entrambe il suo cuore. Il fatto di volgere lo sguardo a un oggetto metallico, al volto di un malato o in un’altra direzione, anziché diminuire accrescono però le domande sulla propria esistenza rendendolo ancora più debole. Altra parentesi: alle scuole elementari Giacomo Poretti era salito sul palcoscenico per alcune recite e le sue esibizioni avevano raccolto consensi incoraggianti. Piccola roba, per carità, ma il seme era stato gettato… Infatti durante il suo impegno politico e il lavoro aveva rispolverato quella passione affacciandosi al cabaret. Anzi, non l’aveva mai messa da parte. Nei momenti liberi lasciati dai turni ospedalieri, infatti, aveva approfondito il tutto diplomandosi nel 1983 alla scuola di Teatro di Busto Arsizio. Il giorno in ospedale, la sera al cabaret nelle vesti di attore comico. Che bella la vita! Ormai la strada è segnata. Teatro, cabaret, televisione. Poi, nel 1991, la svolta. Al Caffè Teatro di Verghera di Samarate, in provincia di Varese, debutta insieme al restante 66,66 per cento del formidabile trio, con Galline Vecchie Fan Buon Brothers… Da quel giorno i tre non si separeranno più scrivendo una delle pagine più importanti della comicità italiana. I film e gli spettacoli teatrali frantumano la soglia dell’immaginabile, sia a livello di incassi sia a livello di consensi. La critica è entusiasta, lo spettatore di più. Ogni performance è un crescendo di comicità intelligente, pulita, raffinata, coinvolgente. Insomma un’apoteosi. A proposito di traguardi conseguiti, nel 2016 il trio soffierà sulla 25esima candelina e da marzo partirà una tournèe con lo spettacolo The best of Aldo Giovanni e Giacomo. Una gustosa carrellata che ripercorrerà i più grandi successi riproponendo gli sketches più amati dal pubblico e mai portati in scena a teatro. Insomma ci sarà da divertirsi.

Noi, però, avevamo lasciato Giacomo ancora alle prese con i suoi interrogativi esistenziali ai quali neanche l’amata filosofia negli anni era riuscita a dare risposte. La vita, però, come avrete capito dai miei continui richiami, è bella proprio perché il disegno di Dio non ci tiene mai fuori e ci sorprende in ogni momento… Ecco, allora, l’incontro con i gesuiti del centro culturale San Fedele di Milano, in particolare con padre Eugenio Bruno che gli farà riabbracciare il mondo di Dio. Quel Dio che sceglie di farsi uomo tra gli uomini, accettando la condizione umana, compresa la morte. Già, quello spettro che tanto ci spaventa e che Giacomo Poretti ha deciso, facendosi coraggio, di guardare negli occhi. E lo ha fatto in modo mirabile, attraverso la scrittura mandando in libreria Al Paradiso è meglio credere (Monda-dori, pp.106, euro 17,50). In una dimensione surreale, siamo nel 2053, l’autore mette in campo la sua grande sensibilità e un’intelligenza sottile pennellando magistralmente gli interrogativi che tormentano l’intimità dell’animo umano, ossia la vita, la morte, la sofferenza, l’amore. E attraverso il suo protagonista, Antonio Martignoni e una scrittura brillante e coinvolgente Giacomo ci ricorda come l’inferno e il paradiso rappresentino la garanzia della libertà che Dio ci ha dato. Dunque non può finire tutto sotto un mucchietto di terra e soprattutto non dobbiamo mai dimenticare che ogni volta che il cuore si apre al bisogno di amare e di essere amato è qualcosa di nuovo che sboccia. D’altra parte, come ripeteva spesso il vescovo degli ultimi, Helder Camara, uno dei più illustri precursori della teologia della liberazione, il massimo che si può fare da soli è sempre meno del minimo che si può fare insieme…

Quello di Giacomo è un romanzo sorprendente dove appunto colui che veste i panni dell’intellettuale del mitico trio, il compagno rompiballe sempre pronto a riprendere Aldo o Giovanni sulla grammatica…, suscita riflessioni significanti. E soprattutto tocca le corde giuste dell’animo.

Incontro Giacomo in una Milano accarezzata da una inusuale giornata primaverile. Fortunatamente è novembre solo per il calendario… Lo scenario dei navigli, poi, offre la pennellata finale. Puntuale come pochi, Giacomo mi riceve nel suo studio al terzo piano. La sua cortesia e la sua estrema disponibilità fanno a gara con la sua proverbiale simpatia. Che bella la vita…

Al paradiso è meglio credere… Come sei giunto a questa conclusione?

Ovviamente il titolo in un libro ha diverse funzioni: attirare il potenziale lettore su un argomento e sintetizzare il contenuto. In questo caso devo dire che si tratta di una sintesi parziale ma bella. È un titolo un po’ pascaliano che si riferisce alla famosa scommessa che Pascal propone agli esseri umani in merito all’esistenza dell’aldilà, del tipo: “Se Dio esiste, si ottiene la salvezza, se ci sbagliamo, si è vissuta un’esistenza lieta rispetto alla possibilità di finire in polvere…”.

A proposito di domande e di risposte, nonostante i grandi successi che hanno di fatto migliorato le condizioni dell’umanità, la scienza non è riuscita però a dare soluzione agli interrogativi più profondi del nostro animo. Tra questi ci sono anche quelli di Antonio Martignoni, il protagonista del tuo bellissimo racconto…

In effetti lui si avventura su alcune strade come quelle della teologia e della filosofia… Lui ci parla e si racconta in due ambiti. Uno nell’aldilà e uno nell’aldiquà. E quando si trova nell’aldilà dice che lì ti vengono risolti i misteri che ti hanno assillato per millenni nell’aldiquà… D’altra parte la scienza è utilissima ma le cose fondamentali, le certezze del cuore, mica possono essere accertate da un’indagine diagnostica… Una risonanza magnetica non può provare l’amore per i tuoi figli o dirti lo stato della relazione sentimentale con tua moglie… Certe cose, infatti, sono avvolte nel mistero. E non è per cattiveria ma perché c’è un disegno preciso. Siccome ci viene consegnata la libertà, che tra l’altro è il peso più doloroso, siamo dentro queste cose che ci sembrano le più incomprensibili…

Un racconto ambientato nel 2053 dove tu dai una serie di idee e dritte che sarebbero utili oggi ai nostri governanti… Ad esempio gli incentivi per la rottamazione degli oggetti, un cellulare o una lavastoviglie, oppure gli sgravi fiscali per i commercianti che decidono di estendere l’orario di apertura. Parliamo delle cosiddette leggi economiche di incentivazione…

Se ci pensiamo bene questa idea dai tratti orwelliani è anche bella. Ci consigliano di sbarazzarci di un oggetto che ha svolto la sua funzione per comprarcene uno nuovo… D’altra parte siamo dentro una necessità terribile, cioè se non produciamo e non consumiamo siamo fermi. Io, poi, mi sono divertito a mettere dentro alcune cose importanti e preziose che rischiano di essere rottamate. Ad esempio gli anziani e la storia che rappresentano.

In pratica quella società del 2053 punta solo sull’utilità e il profitto…

Proprio così, dopo i 75 anni non sei più efficiente. Ma soprattutto si sbarazza della storia, di qualcosa che ci lega a quella tradizione visto che siamo diventati ipertecnologici. Oggi, infatti, la tecnologia sembra veramente la manifestazione di Dio… La mia paura, appunto, è che si perdano tutte queste radici.

Hai paura della morte?

Confesso che mi inquieta. Durante le varie presentazioni del libro mi è capitato di rivolgermi sia ai credenti, sia ai non credenti e in tutti, ovviamente con sfumature diverse, ho registrato una certa inquietudine… Chi ha fede in qualche modo “si fida” ma nello stesso tempo gli ronza attorno il solito interrogativo: E se questa storia non fosse vera? Credo sia comunque una caratteristica della fede il fatto di essere sempre interrogante e vagamente inquietante…

Come t’immagini l’aldilà?

Non è semplice risponderti… In questo caso mi è venuto il coraggio di scrivere e di fantasticare sull’aldilà, così mi sono fatto tutta una serie di domande che sembrano banali… Attenzione, però, non è solo una mia necessità, ma di tutti coloro che non si accontentano di essere semplicemente dentro questo mistero. Di chi non si accontenta della classica frase “dopo la morte sarà quel che sarà…”. La fede cattolica ci ricorda in continuazione che nel momento del trapasso si vedrà il volto di Dio. Questo allora cosa significa? Ecco, allora, che ho provato a immaginarmi “concretamente” cosa avverrà con il trapasso…

Con quale risultato?

In questo romanzo mi sono un po’ divertito, però non sveliamo tutto… Diciamo solo che mi sono molto appassionato a un passaggio dove un  anziano muore per un ictus e se ne sta in un luogo dove si ricompare… Lui sta lì tutto triste perché la moglie è ancora viva…, in realtà sta aspettando che muoia per riabbracciarla. È un paradosso letterario, ma il paradiso è il luogo del ricongiungimento nel senso più vasto del termine.

Cosa dire a chi oggi vive come se non dovesse mai morire o come se tutto dovesse finire con la morte?

Io ho passato anni a pensare che fosse così e nel libro, allora, mi sono divertito in qualche modo a vendicarmi di una persona: Jean Paul Sartre. Quando avevo vent’anni, infatti, non facevo che leggere i suoi scritti, pensavo, speravo che gli esistenzialisti potessero darmi in qualche modo una consolazione, anche romantica o tragica dell’esistenza. Purtroppo non è stato così. Con il massimo rispetto per queste figure, devo dire che nelle loro argomentazioni e nei loro scritti non c’è nulla, addirittura l’altro è l’inferno… Invece secondo me non è così, esiste assolutamente qualcos’altro. Esistono luoghi di beatitudine che ovviamente sono avvolti dal mistero, noi non possiamo comprendere fino in fondo questa cosa però la vita non finisce qui assolutamente.

Gli anni spensierati trascorsi all’oratorio e poi, d’un tratto, l’allontanamento dalla chiesa e dalla religione. Perché?

Nel mio caso credo sia stata colpa dell’adolescenza che è una fase dell’esistenza particolarmente travagliata. Ci sono svariate risposte, diversi comportamenti, evidentemente da un punto di vista puramente psicologico avevo la necessità di staccarmi. In questi casi fino all’attimo prima sei il cucciolo di mamma e papà, il cocco di casa, eccetera, eccetera. Un attimo dopo, però, questi vezzeggiativi non li sopporti più, dentro ti scatta la necessità di individuarti e quelli che ti hanno voluto e ti vogliono bene li trovi di colpo antichi, superati… Credo sia proprio una necessità fisiologica molto importante. Ecco, allora, che in qualche modo dovevo staccarmi, dovevo cercare una strada tutta mia.

Come è andata?

L’ho percorsa attraverso la politica, attraverso l’illusione che il comunismo potesse risolvere tutti i problemi dell’umanità e anche individuali…

Invece?

In realtà dopo poco tempo per me si è rivelato un grosso errore… Storicamente tutta questa tragedia è ancora da vedere, però dentro di me non funzionava.

Come sei tornato indietro?

È iniziata una fase faticosa, la ricerca del senso mi ha sempre accompagnato così mi sono rivolto soprattutto alla filosofia. In particolare agli esistenzialisti Nietzsche, Sartre, Dostojevski, Kierkegaard, eccetera. Come ho detto prima, però, da loro non è arrivato nulla di soddisfacente. Poi, sintetizzando, una ventina di anni fa l’incontro con mia moglie, pure lei assetata di risposte… Così ci siamo incoraggiati a vicenda, d’altra parte quando sei fortemente interessato a una cosa alla fine le risposte le trovi. Nel nostro caso la frequentazione del centro culturale San Fedele di Milano e quindi i gesuiti hanno avuto un’importanza fondamentale nel ripercorrere la strada della fede.

Quanto è stato difficile o facile combinare la tua libertà con i piani di Dio?

Mi viene da dire che per lui è apparentemente facile mentre per me è stato complicato… In questo caso, però, i piani prevedevano certi passaggi che dovevo assolutamente percorrere. Per tirare qualche somma io ho bisogno proprio dell’esperienza, di percorrere diverse strade, di vedere e valutare il bianco e il nero. Non mi accontento mai della prima scelta. Visto a posteriori è chiaro che Dio aveva disseminato dei segni che non potevo non vedere…

Un esempio?

Nel 1998 andai con i miei soci Aldo e Giovanni a girare alcune scene del film Così è la vita in Abruzzo. Precisamente una scena del paradiso la girammo nella piana di Campo Imperatore. Qualche anno dopo, io e mia moglie, insieme ad alcuni amici e a un gruppo di gesuiti ci siamo ritrovati a condividere una settimana di ritiro spirituale e di riflessioni sulla bibbia a Calascio, sempre in Abruzzo, praticamente a due passi da dove avevamo girato la scena del paradiso… Per me sono segnali inequivocabili…

Altri segni?

Nel pieno della mia militanza politica nei gruppi di sinistra, alla fine degli anni 70 quando frequentavo la scuola di infermiere, organizzammo la manifestazione del 1° maggio. Noi di sinistra non volevano far entrare in Piazza Duomo, a Milano, quelli di Comunione e Liberazione e comunque i cattolici militanti. Mi ricordo che i due fronti si avvicinarono pericolosamente – fortunatamente non accadde nulla – e io, non so per quale motivo visto che non ho neanche il fisico…, mi ritrovai, in prima fila l’ombrello alzato… D’un tratto dall’altra parte vidi un mio professore che era un ciellino… Ci siamo guardati per qualche secondo negli occhi e subito entrambi abbiamo abbassato gli ombrelli… Pensa che il giorno dopo avevo lezione con lui… Molti anni più avanti nostro figlio frequenterà una scuola fondata da Comunione e Liberazione. E dire che nessuno di noi fa parte del movimento…

Ti rivolgi spesso a Dio?

Sì, lo disturbo sempre, lo strattono chiedendogli cosa voglia da noi…

Da bambino chiedevi centimetri per crescere, oggi invece quali sono le tue richieste?

Sai, quando sei bambino la tua preghiera riguarda sempre qualcosa di personale e materiale… Oggi, invece, le richieste sono molto cambiate… Gli chiedo ad esempio di essere più chiaro in modo da capire meglio e prima i suoi disegni che a volte, a mio avviso, sono troppo oscuri. Questa lamentela è sempre presente nei nostri dialoghi… Di personale non chiedo nient’altro, vorrei che togliesse il dolore e la sofferenza nel mondo ma anche in questo caso credo facciano parte di un percorso del suo progetto. Infatti se desideriamo che qualcuno dei nostri amici o dei nostri cari non soffra dobbiamo essere noi l’aulin, la medicina per i loro dolori… A Dio non puoi ogni volta chiedere di non far morire una persona, sta a noi in qualche modo articolare una vicinanza che allevii le sofferenze di chi ci è caro…

Come vivi il ruolo di marito e genitore?

Sono due ruoli difficilissimi, complicati. Devi confermare e contemporaneamente chiarire il perché del tuo ruolo in quel progetto di famiglia. Fare il genitore è sempre difficile, di questi tempi però è veramente dura…

Ti capita mai di pregare insieme a tuo figlio e tua moglie?

Sì, lo facciamo spesso. Prima di mangiare e la sera prima di addormentarci. Nel corso della giornata abbiamo sempre dei momenti in cui ci riuniamo e ringraziamo il Signore.

Cosa ti spaventa di più nel preparare tuo figlio al mondo?

In questi casi ci si rivede nei figli. Io vedo i miei anni di inquietudine verso il senso delle cose e inevitabilmente mi viene da essere protettivo. Ovviamente lui avrà il suo percorso e le sue sofferenze, però il genitore vive il tutto con grande preoccupazione… Probabilmente ogni generazione ha avuto i suoi problemi, però questi qui poverini vanno incontro a un futuro incerto, mio figlio ha nove anni… Dovranno affrontare tante cose, le nuove famiglie, la tecnologia. È un mondo sicuramente diverso da quello che ho vissuto io.

Qual è la tua più grande preoccupazione?

In questi nostri tempi spesso il desiderio dei genitori è di assicurare l’eccellenza scolastica ai figli… Per carità, va bene, però a mio avviso non è l’unica cosa. La mia preoccupazione è che tutte le pressioni dei genitori e le loro aspirazioni disilluse finiscano sulle spalle dei figli… Io provocatoriamente durante gli incontri con gli studenti mi soffermo spesso su questo concetto. Ok l’inglese, ok le facoltà tecniche però che palle… Ho l’impressione che tra vent’anni avremo bisogno di qualcuno che non ci sarà più… Ad esempio già oggi la professione del filosofo e del teologo rappresentano una merce rara… C’è bisogno di qualcuno che spieghi ai nostri figli il senso di vivere in un certo modo. Nel mio ultimo incontro, quindi, ho detto loro di iscriversi alla facoltà di Filosofia… Alla fine dell’incontro, però, in privato, una professoressa di Scienze, riprendendomi, mi ha detto una cosa bellissima…

Cioè?

Il filosofo, mi ha detto con tono sereno, si occupa del pensiero dell’uomo, lo scienziato invece si occupa del pensiero di Dio… Ho trovato questa risposta meravigliosa. Se io studio la natura e quindi la scienza sto studiando il pensiero di Dio…

A tuo figlio come pensi di spiegargli il concetto di amicizia?

Frequenta la quarta elementare e quindi è già dentro un percorso. Gioca anche in una squadra di calcio e già sono accaduti dei piccoli episodi con gli amici. Screzi di poco conto. Noi gli abbiamo detto che l’amico è colui di cui ti puoi fidare… Colui che non ti tratta con violenza, che non ti fa fare cose che non ti piacciono, insomma le prime cose che si possono dire a un bambino sull’amicizia. E poi insegnano un approccio positivo allo sport.

Tipo?

Quelli del Centro sportivo italiano magari insistono meno sull’aspetto tecnico ma a livello educativo e formativo sono particolarmente attenti. Fanno giocare tutti, raccomandano a tutti, soprattutto ai più bravi, di non prendersi mai gioco di quegli più scarsi, di rispettare sempre e comunque gli avversari, le regole, eccetera, eccetera. Sono piccoli semi che tu metti lì con la consapevolezza, però, che tutto sarà nelle mani delle singole persone, della nostra libertà…

A proposito di amicizia, com’è nata e come si è cementificata negli anni quella con Aldo e Giovanni?

È nata nell’ambito del lavoro dove, anche in questo caso, sono avvenute cose miracolose…

A cosa ti riferisci?

Siamo tre persone con caratteri completamente diversi che in teoria non avrebbero mai potuto incontrarsi. Invece tra noi è nata una chimica incredibile…

Ce li descrivi sinteticamente?

Giovanni è un taciturno, si trova bene in un ambito di semplicità, nella natura. Ha comperato una casa in campagna dove ci vivrebbe tutto l’anno. In questi ultimi anni, poi, si è messo a correre e praticando altre discipline estreme si trova spesso a contatto con la natura. Aldo, invece, è più naïf…

Insomma vi completate…

Penso proprio di sì. A nessuno dei tre, comunque, piace il clamore della mondanità…

Il successo, dunque, non ha fatto danni…

Assolutamente no, siamo stati sempre innamorati del nostro lavoro e nonostante le nostre diversità una volta sul palcoscenico scatta un qualcosa di prodigioso. C’è un’alchimia particolare che è anche difficile da raccontare…

I vostri spettacoli e i vostri film hanno frantumato ogni record d’incasso, fatto incetta di premi e consensi unanimi, critica compresa. Questo lungo e straordinario legame è stato vissuto sempre come una interminabile luna di miele oppure si è dovuto confrontare anche con momenti di crisi e riflessione?

Le burrasche nella vita ci sono sempre…

Così brutte al punto di pensare a strade diverse?

No, mai. Litigato tanto, anche perché quando devi creare un’opera pensi sempre che la tua idea sia la migliore, di conseguenza faticosamente ti alleni ad accettare le cose degli altri… Ancora oggi discutiamo spesso, però mai con un fine recondito… Noi tre, infatti, siamo consapevoli che staccati dagli altri due nessuno di noi farebbe nulla… Non abbiamo mai pensato un solo istante di separarci…

Ma qual è il segreto di una comicità così coinvolgente e vincente, priva di parolacce, volgarità e scene di sesso?

Sinceramente non lo so… Forse semplicemente mi viene da rispondere perché il nostro gusto è questo, tutti e tre siamo attratti da questo tipo di eleganza comica, tutto il resto non ci ha mai divertiti. Anche questo può essere considerato una sorta di miracolo, siamo sempre molto critici contro noi stessi però non abbiamo mai avuto necessità di mettere dentro volgarità e altre cose. Ci viene naturale.

Chi è il più interista dei tre?

Io e Giovanni, quella di Aldo è una passione più sbiadita, direi all’acqua di rose… Io forse sono quello che la vive in maniera più intensa. Ad esempio, l’anno che abbiamo vinto la Champions ho rischiato l’infarto… Mio figlio Emanuele aveva quattro anni per cui bisognava portarlo a letto prima. Quindi, assolto il compito, seguivo da solo tutte le partite in televisione… Non ti dico la gara di Kiev quando a cinque minuti dalla fine perdevamo 1 a 0… Superammo il turno all’ultimo secondo… Che sofferenza, ho rischiato di morire sul divano…

Ricordo benissimo, una sofferenza pazzesca prima della gioia finale… Andasti a Madrid a vederti la finale?

Giovanni mi aveva regalato il biglietto…

Che bel gesto…

Infatti, però lo rifiutai… Se torno a Milano senza la coppa, gli dissi, credo morirò durante il viaggio… Purtroppo non ce l’ho fatta, Giovanni invece sì. L’ho seguita a casa con alcuni amici e anche lì mi ha preso un po’ di scaramanzia in quanto tutte le altre le avevo viste da solo… Fortunatamente è andata bene.

Come è nata la passione per i colori nerazzurri?

Mi è stata attaccata dai miei genitori sin da quando avevo sei anni e mi portavano a San Siro. Noi abitavamo a 30 km e seguivamo tutte le partite casalinghe. La domenica partivamo per lo stadio con dietro la copertina, il thermos e qualcosa da mangiare. Cosa che puntualmente ho trasmesso a mio figlio Emanuele. Così quest’anno, dopo tanto tempo che non accadeva nonostante avessi l’abbonamento gratuito grazie alla grande generosità del presidente Mas-simo Moratti per alcuni lavori che avevamo fatto in società, siamo tornati allo stadio. Ho acquistato l’abbonamento per tutta la famiglia…

Prima mi hai detto di Aldo e Giovanni, ma Giacomo Poretti chi è?

È una domanda a cui non posso rispondere, deve farlo qualcuno da fuori… Posso solo dirti che sono un misto di quello che si vede in televisione, al cinema, che si legge sulle pagine di alcuni quotidiani e da qualche anno sui libri…

Scrittore e attore: quali differenze e quali stati d’animo?

Sono due cose completamente diverse che, ringraziando Dio, ho avuto la fortuna di sperimentare. Ovviamente quando interpreti un personaggio non sei completamente te stesso, lo esasperi, quindi in quel caso reciti e vivi un gioco molto divertente. Scrivere, invece, è un’altra cosa, c’è una mescolanza tra l’inventare le storie e il sentire risuonare delle cose dentro di te.

Il teatro scoperto da bambino, l’abbandono degli studi da geometra per entrare in fabbrica come metalmeccanico e a 18 anni un nuovo cambio di camice, questa volta da infermiere. Una professione svolta per undici anni in ospedale. Nel frattempo, però, non ha mai dimenticato il primo amore diplomandoti alla scuola di Teatro di Busto Arsizio. Che bella la vita…

Hai ragione, è bellissima, varia, complicata, a volte addirittura tremenda. È talmente stupefacente il fatto di esserci che ho sempre cercato di starci dentro in tutti i modi…

I tanti anni trascorsi in ospedale, alcuni dei quali come caposala nel reparto di Neurologia, stando a contatto con le sofferenze e le fragilità degli uomini, quanto ti hanno cambiato?

Cambiato no perché tu arrivi a certe esperienze della vita che già sei formato in certo un modo… Il fatto di vivere quella cosa sicuramente ti arricchisce. Non ti nascondo che quel lavoro in ospedale fu un ripiego, all’epoca avevo 18 anni e alle spalle un’esperienza da metalmeccanico. Negli anni 70 in Lombardia, nella provincia di Milano in particolare, se perdevi un lavoro mezz’ora dopo ne trovavi un altro… D’altra parte non appena stavi qualche giorno con le mani in mano i tuoi iniziavano a guardarti con un’aria strana… Così, dopo aver perso il lavoro, presentai una domanda in ospedale come addetto alle pulizie e in pochissimo tempo mi presero. Ovviamente dissi che non avrei mai lavorato come infermiere in quanto una sola goccia di sangue mi spaventava a morte… Invece mi sono fermato undici anni… Ho lavorato anche cinque anni nel reparto di Oncologia dove avevo un rapporto giornaliero con la morte…

Situazioni che ti segnano…

Assolutamente sì. È un’esperienza particolarmente profonda perché non puoi affezionarti a tutti i malati. Ne moriva uno al giorno e se ci pensi umanamente è uno strazio… Se ti affezioni, infatti, ogni volta perdi un fratello o un amico ed è un qualcosa di tremendo. Un paio di morti me le ricordo come se fossero dei miei fratelli, credimi stai malissimo… Vivi un lutto fino in fondo.

Ma come è possibile vivere senza emozioni una simile esperienza lavorativa?

Senza diventare cinico e distaccato devi distribuire attenzione, umanità ma, come mi disse un’anziana suora caposala, non puoi affezionarti a tutti ma devi essere disponibile con tutti. Lo so, è difficilissimo, è dura, ti barcameni…

Senza il trio oggi cosa sarebbe Giacomo Poretti?

Se non avessi incontrato Aldo e Giovanni, a cui devo tutto dal punto di vista professionale, chissà dove sarei… Anche questa mia passione per la scrittura la devo a loro perché incontrandoli ho potuto scoprire le peculiarità del mio essere. Prima non lo sapevo, non conoscevo le mie sensibilità. Nella vita, d’altra parte, gli incontri sono fondamentali. Infatti una delle cose che spero venga fuori da questo libro è che noi non siamo fatti per essere soli ma per stare in relazione con gli altri.

Guardandoti indietro a chi va il tuo grazie più grande?

A un sacco di persone, il primo però è per i miei genitori. A me e a mia sorella hanno sempre voluto un bene dell’anima. Come battuta dico che hanno cercato di fare in modo che per noi fosse ogni giorno natale… Cercavano sempre di farci vivere in un clima sereno, anche se ovviamente non era sempre possibile. Dopo vengono i tanti amici e soprattutto l’incontro con mia moglie che è stato fondamentale. Altro incontro importantissimo quello con padre Eugenio Bruno che adesso non c’è più, ci aspetta lassù, in paradiso…

L’errore che cancelleresti?

Di cavolate ne ho fatte tantissime… Più che l’errore comunque c’è una paura che mi è rimasta dentro. Mi riferisco al fatto di non aver studiato… Una cosa a cui ho voluto, in parte, trovare una giustificazione dicendo che in casa c’era necessità di lavorare… La verità, però, è che avrei potuto anche approfittare della generosità dei miei, come fanno molti genitori che si immolano per i figli…

La scuola ti faceva paura?

Sì, in qualche modo mi creava ansia. Uno stupido errore che se potessi cancellerei volentieri…

L’ultima volta che hai pianto?

Piango di frequente, a volte mi assale un senso di nostalgia. Ad esempio mio padre mi manca tanto… Lui se n’è andato dodici anni fa e quando ci penso mi fa immalinconire…

Ti piace papa Francesco?

Sì, moltissimo.

E ciò che sta accadendo intorno a lui?

Poveraccio, credo abbia una brutta gatta da pelare… Quello che sta accadendo in questi giorni dimostra ancora una volta che la chiesa è santa ma è fatta di uomini e quindi anche di peccatori… Non tutti pensano all’unisono quello che pensa Francesco. Io ero molto affezionato anche a Benedetto XVI e il gesto che ha compiuto dimostra la grande difficoltà, come papa Francesco, di gestire la chiesa di questi tempi.

Credi ancora nella politica?

Bisogna quasi essere obbligati però devo dirti la verità che sono molto, molto, molto, ma molto sfiduciato…

Tra Marino e Renzi chi scegli?

Senza entrare nel merito credo che ci siano state alcune cadute di stile che la dicono lunga su Marino… Renzi mi sembra un uomo solo al comando…, però a mio avviso ha il merito di aver rottamato una certa politica…

E tra Salvini e Grillo?

Dico la verità, quando Beppe Grillo lanciò il primo Vaffaday gli telefonai complimentandomi per la bellissima iniziativa satirica che mi aveva molto divertito. Adesso, invece, è un’altra cosa, probabilmente sarò utopista ma la politica deve cercare di mettere d’accordo le diverse opinioni, bisogna governare…

Tra poco sarà Natale e come da copione auspici, buoni propositi, promesse e addirittura giuramenti si rincorreranno felici come dei cuccioli in un prato. Poi, però, spente le luci, torneranno in primo piano, purtroppo, l’egoismo, le disuguaglianze, le ingiustizie sociali, le violenze, la morte… Di fatto ci siamo costruiti un mondo tutto nostro dove Dio è stato messo ai margini se non addirittura chiuso fuori… Perché è così difficile metterlo al centro della nostra vita?

Bella domanda… Per me l’acquisizione della fede deve passare attraverso uno smascheramento psicologico di noi stessi. Psicologica-mente quando vieni al mondo pensi di attribuirti tutti i meriti, in realtà la fatica immensa è dichiarare di dipendere da qualcuno. Il fatto che qualcuno ci abbia dato questa vita sembra quasi inaccettabile. E questo è il primo passo, il primo approccio a una domanda onesta sulla fede. Non mi sono fatto da solo, quindi chi è stato? E perché?

Cosa scriverai nella lettera a Gesù Bambino?

Senza diventare romanticamente buonista chiederò armonia perenne in famiglia. È una cosa preziosissima, ti aiuta a superare tutte le situazioni, anche quelle più brutte che inevitabilmente accadono. Un’altra richiesta, poi, riguarderebbe l’Inter. Vorrei chiedergli lo scudetto ma devo aspettare altri cinque anni…

Perché mai?

Perché la sera del 22 maggio del 2010, il giorno della vittoria della Champions, promisi a nostro Signore che se l’avessimo vinta per dieci anni non avrei chiesto più nulla per i colori nerazzurri… E oggi siamo a metà del guado…

 

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