UNA PIAGA CHE COINVOLGE 200 MILIONI DI PERSONE
NON È UNICAMENTE UNA QUESTIONE DI LIBERTÀ RELIGIOSA: UNA TALE, CRESCENTE OSTILITÀ METTE A RISCHIO L’ESISTENZA STESSA DI UNA CIVILTÀ E DEI SUOI VALORI. TUTTI SONO CHIAMATI IN CAUSA: NON CREDENTI, INTELLETTUALI, AUTORITÀ POLITICHE E ORGANIZZAZIONI NON GOVERNATIVE
La religione cristiana è oggi in assoluto la più minacciata. Un disastro umanitario: da 150 a 200 milioni di cristiani (cattolici, protestanti, ortodossi) vengono discriminati o perseguitati sull’intero pianeta. In Medioriente, nell’Africa subsahariana e in Asia sono entrati nel mirino di gruppi armati e organizzazioni terroristiche. Vittime di pressioni sociali, i cristiani sono divenuti bersaglio anche di misure repressive da parte degli apparati statali. Vengono rigidamente controllati, subiscono intimidazioni e omicidi, oltre a interventi massicci di “epurazione religiosa”, come in Iraq, nel territorio controllato dallo stato islamico. La condizione dei cristiani in queste aree geografiche suscita nella comunità internazionale una riflessione? Non è unicamente una questione di libertà religiosa: una tale, crescente ostilità mette a rischio l’esistenza stessa di una civiltà e dei suoi valori. Per questo la sorte dei cristiani non riguarda soltanto i credenti. Tutti sono chiamati in causa: non credenti, intellettuali, autorità politiche e organizzazioni non governative. È questo il senso di un volume edito da Mondadori, Il libro nero della condizione dei cristiani nel mondo, a cura di Jean-Michel Di Falco, Timothy Radcliffe, Samuel Lieven – coordinatore del progetto e giornalista de La Croix – e Andrea Riccardi, dove con decine di mappe, grafici e statistiche si mostra in modo oggettivo quanto i cristiani siano oggi sotto attacco in decine di paesi del mondo. Se infatti, in Medioriente o in alcuni paesi africani come la Nigeria, i cristiani sono entrati nel mirino degli islamisti, in alcune aree dell’Asia sono vittime di estremisti indù e buddisti. Ma i cristiani sono oggetto di minacce e violenza anche nella “cattolica” America La-tina dove sacerdoti e operatori pastorali sono spesso bersaglio della criminalità organizzata e del narcotraffico. La chiesa e le comunità ecclesiali cercano di mobilitarsi. Ad esempio una conferenza internazionale sul futuro dei cristiani in Medioriente è l’iniziativa lanciata dal fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, come seconda tappa dopo l’appello del giugno scorso per la salvezza di Aleppo, città culla del dialogo e della convivenza fra cristiani e musulmani, ora al centro della feroce guerra di Siria. L’appuntamento – ha detto Riccardi – è per il 5-6 marzo 2015 a Cipro, e “sollecitiamo la partecipazione dei patriarchi e dei capi delle chiese cattoliche, ortodosse e cristiane di tutto il Medioriente, di personalità del mondo musulmano, di rappresentanti della politica internazionale e dei governi che vorranno aderire. L’eventuale fuga dei cristiani dal Medioriente vorrebbe dire la perdita di un pezzo di pluralismo e di democrazia in tutta l’area, perché dopo i cristiani sarebbero discriminati gli stessi musulmani e le altre componenti di un panorama irripetibile che costituisce un bene per tutta l’umanità. Morirebbe del tutto l’antica Mesopotamia; sarebbe un etnocidio, cioè un genocidio culturale, oltre che un massacro”. Lo scorso 20 ottobre, durante il concistoro sul Medioriente in Vaticano espressamente voluto da papa Francesco, il cardinale segretario di stato, Pietro Parolin, nel condannare chiaramente le violazioni non solo del diritto umanitario internazionale ma dei diritti umani più elementari, ha riaffermato il diritto dei profughi di fare ritorno e di vivere in dignità e sicurezza nel proprio paese e nel proprio ambiente. “Si tratta – ha affermato – di un diritto che deve essere sostenuto e garantito tanto dalla comunità internazionale quanto dagli stati, di cui le persone sfollate o profughe sono cittadini. Sono in gioco principi fondamentali come il valore della vita, la dignità umana, la libertà religiosa e la convivenza pacifica e armoniosa tra le persone e tra i popoli”. E ha ribadito quella che è, oggi, la realpolitik vaticana: “la pace in Medioriente va cercata non con scelte unilaterali imposte con la forza, ma tramite il dialogo che porti a una soluzione regionale e comprensiva, la quale non deve trascurare gli interessi di nessuna delle parti. In particolare, è stata rilevata la necessità e l’urgenza di favorire una soluzione politica, giusta e duratura, al conflitto israelo-palestinese come un contributo decisivo per la pace nella regione e per la stabilizzazione dell’area intera. Si è parlato anche del ruolo dell’Iran nella risoluzione della crisi in Siria e in Iraq e nella stessa lotta contro il cosiddetto stato islamico. Il coinvolgimento dell’Iran, la moltiplicazione e il miglioramento delle sue relazioni con la comunità internazionale contribuiranno a favorire anche una soluzione soddisfacente alla questione nucleare. Si è fatto un riferimento particolare alla situazione del Libano, che risente pesantemente della situazione politica dei due paesi confinanti, Siria e Israele, e dell’intera regione”. E, sull’uso delle armi, ha concluso: “Mi riferisco al dibattito sull’uso della forza per fermare le aggressioni e per proteggere i cristiani e gli altri gruppi vittime della persecuzione. Al riguardo, si è ribadito che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre, però, nel rispetto del diritto internazionale, come ha affermato anche il santo padre. Tuttavia si è visto con chiarezza che non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare. Esso va affrontato più approfonditamente a partire dalle cause che ne sono all’origine e vengono sfruttate dall’ideologia fondamentalista”. Una questione dirompente, per papa Francesco, quella del traffico di armi. Parolin, infatti, ha chiesto un’attenzione politica alle fonti che sostengono le attività terroristiche attraverso un più o meno chiaro appoggio politico, nonché tramite il commercio illegale di petrolio e la fornitura di armi e di tecnologia. “In un momento di particolare gravità – ha concluso Parolin – dato il numero crescente di vittime causate dai conflitti esplosi in Medioriente, la comunità internazionale non può chiudere gli occhi di fronte a questa questione, che ha una profonda rilevanza etica”.