Il mondo ha tirato un sospiro di sollievo dopo la firma del piano di pace per la Palestina, il 13 ottobre scorso, a Sharm el-Sheikh, ma il cammino per la pace sarà difficile, lungo e fragile. Speranza di pace anche per l’Ucraina.
Una scena commovente, consolatoria, quasi terapeutica quella del 13 ottobre 2025 quando Hamas ha riconsegnato a Israele gli ultimi ostaggi dopo due anni di prigionia nei cunicoli di Gaza. Finalmente è tregua: le armi tacciono, il cibo arriva ai gazesi, quasi due mila carcerati palestinesi riacquistano la libertà, torna la speranza per gli abitanti della Striscia. Gioia in Palestina, sollievo nel mondo.
Scene lenitive che, tuttavia non devono cancellare il ricordo della disumana carneficina del 7 ottobre 2023 compiuta da Hamas in Israele: 1.200 morti e 250 ostaggi. Così come non si può oscurare la memoria della sproporzionata ritorsione di Israele che ha provocato almeno 67 mila morti, – tra i quali innumerevoli donne e bambini – 169.000 feriti, la distruzione o il danneggiamento del 92% delle abitazioni di Gaza, compromesso il funzionamento degli ospedali, l’abbattimento o il danneggiamento dell’89% delle risorse idriche e igienico-sanitarie, non ultimo la carestia. A tutto questo si aggiunge un contesto di sistematica violazione del diritto internazionale, rimasta di fatto impunita e le Nazioni Unite, impotenti, non andavano oltre inascoltate condanne verbali.
Un rapporto della commissione internazionale indipendente delle Nazioni Unite sostiene che le condotte di Israele in Gaza possono essere qualificate come “atti di genocidio”, accusa che Israele rigetta con fermezza. Comunque sia, agli occhi di un’ampia fetta dell’opinione pubblica mondiale Israele da vittima si è trasformato in aguzzino, una terribile nemesi storica per un popolo vittima dell’Olocausto.
Perché non bisogna dimenticare? Perché quello che è avvenuto deve servire come monito a chi ha in mano le sorti dei popoli a non lasciare marcire crisi croniche – come era quella israelo-palestinese – illudendosi di riuscire a contenerle con la solo forza militare e dover intervenire quando ormai è troppo tardi. Dimenticare banalizza la violenza, manca di rispetto alle vittime il cui sangue sarebbe stato sparso invano. Era necessario, per raggiungere una tregua, attraversare 735 giorni di guerra, morti, distruzioni, fame e una sofferenza che ha generato un odio destinato a protrarsi nel tempo, con il rischio concreto di future esplosioni di violenze?
In ogni caso, è fuori dubbio che la firma del patto per la pace a Sharm el-Sheikh del 13 ottobre sia una data storica. Un encomio doveroso all’imprevedibile e teatrale presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che, in questo caso, è riuscito a imporsi a Netanyahu e costringerlo ad accettare il piano di pace. Certo, avrebbe potuto farlo molto prima.
Si tratta solo di un primo passo verso la pace. “Una scintilla di speranza” l’ha definito papa Leone XIV. In effetti il percorso sarà lungo, difficile, fragile. Il piano prevede 20 punti, tra cui il disarmo di Hamas, il parziale ritiro dell’esercito israeliano dalla striscia di Gaza e la formula “due popoli due stati”. La tregua sarà monitorata da una task force congiunta con 200 soldati Usa e militari di alcuni paesi arabi. Bisogna fare in fretta. Già all’indomani della firma ci sono stati problemi di ordine pubblico a Gaza. Trump ha assicurato Hamas che Israele non riprenderà la guerra una volta ottenuti gli ostaggi. Ma non è chiaro cosa potrebbe accadere se emergeranno divergenze tra le parti sul rispetto dei termini dell’intesa. La pace vera è ancora tutta da costruire.
Oltre alla pace politica resta la sfida della riconciliazione umana. Come sanare le ferite dove ogni famiglia ha pianto un morto, un disperso, o un prigioniero? Ancor più delle case è andata distrutta la fiducia. Ricostruirla richiederà generazioni e un impegno che va molto oltre la firma di un trattato.
Mentre si spera che la questione palestinese possa, nonostante tutto, imboccare un percorso verso una pace duratura, il pensiero corre inevitabilmente alla guerra russo-ucraina che si prolunga ormai da più di tre anni e di giorno in giorno diventa più distruttiva. Una nuova speranza di pace.
