UNA LEZIONE DA CUI RIPARTIRE
La speranza – con qualche settimana di anticipo rispetto alla pubblicazione di queste note – è che sia tutto finito, o quasi. La pandemia di Coronavirus che ha investito tutta l’Italia, compreso l’Abruzzo, un problema di fondo, però, lo ha posto con tutta la forza e l’impatto che nessuno mai si sarebbe aspettato. L’impreparazione del nostro sistema sanitario. Considerato, alla vigilia della pandemia, uno dei più progrediti al mondo. E invece…
Proviamo a ragionare. Se tagli le risorse della sanità pubblica, spesso a favore di quella privata, ti ritrovi con un problema ingestibile. Prendiamo l’esempio della nostra regione. Il vampiresco piano di rientro della spesa sanitaria, cui siamo stati sottoposti per alcuni anni, ha prodotto tagli indiscriminati di ospedali, riconversioni di terapie intensive in centri di riabilitazione motoria, soppressione di posti pronto soccorso e quant’altro ancora. Tagli a destra e a manca. Il risultato di rientrare, da quegli che si ritenevano gli eccessi della sanità pubblica, è stato raggiunto. Ma il prezzo che abbiamo pagato e stiamo ancora pagando è andato ben oltre i risparmi che ci sono stati imposti dai cosiddetti patti di stabilità. Sì, perché nel caso del Coronavirus abbiamo pagato un tributo incommensurabile. Lo abbiamo fatto con la vita delle persone. Un Paese fermo, totalmente o quasi paralizzato, per qualcosa che quasi nel 96% dei casi non è mortale (parola di un grande virologo, Giulio Tarro, allievo di Albert Sabin) non può considerare la sua sanità pubblica come modello di civiltà. Al contrario. Vogliamo parlare di due cose molto semplici, quasi elementari? I tamponi e le mascherine. In Corea del sud la mortalità per il Coronavirus è stata bassa perché hanno fatto tamponi a tappeto. Lo stesso è accaduto in Cina. Da noi, invece, l’esiguità degli accertamenti (nel momento in cui stiamo scrivendo) è stata disarmante. Le mascherine? Annunci di arrivi di milioni e milioni di mascherine provenienti da tutte le nazioni che hanno manifestato solidarietà al nostro Paese. Annunci televisivi, a suoni di tamburo, di imminenti arrivi di carghi, navi, aerei da trasporto strapiene di mascherine. Poi ti fai un giro per le farmacie abruzzesi e non trovi altro che cartelli con su scritto “mascherine e gel disinfettanti esauriti”. È civile tutto questo? Può considerarsi civile una nazione che non riesce ad assicurare nemmeno al personale sanitario, nelle prime settimane dell’emergenza, i presidi essenziali per evitare il contagio?
Un paio di lezioni dovremmo, si spera, trarre da questa tremenda tragedia. La prima. La sanità pubblica va rafforzata. Gli ospedali, piccoli o grandi, non vanno chiusi o riconvertiti per terapie palliative. Sono state tagliate risorse ovunque nella sanità pubblica. Il tutto condito da una incapacità politica di gestire la situazione se non con provvedimenti di facile attuazione. Chiusura totale e un quasi stato di militarizzazione. Seconda lezione. Non possiamo continuare a violentare la natura, a sfruttarla senza criterio. È capace di ribellarsi e quando lo fa non ci sono santi a cui votarsi. Un’ultimissima considerazione. La comunicazione. Un’altra vittima del Coronavirus. Non quella dei giornalisti che sono stati in prima linea per tenere informata la gente. Lo hanno fatto a loro rischio e pericolo, come altre professioni esposte sul fronte del contrasto. No, parliamo di quella istituzionale, di quella che proviene dai centri preposti a rassicurare con le parole oltre che con i fatti. Hanno solo diffuso panico. Ci sono stati direttori generali delle Asl che hanno dato disposizioni ai loro addetti stampa di non parlare con i giornalisti e di non fornire loro alcun tipo di indicazione. Per poi emanare comunicati stampa astrusi, illeggibili, pieni di burocratese e di disinformazioni. Inservibili, se non dannosi, alla stampa e quindi alla pubblica opinione.
Allora, non dimentichiamo quello che è stato fatto ai nostri ospedali; non dimentichiamo che abbiamo bisogno di governanti competenti e capaci di agire con cognizione di causa di fronte alle emergenze; non dimentichiamo che la natura è fragile ma anche vendicativa. E non dimentichiamo che l’informazione è un bene fondamentale per la vita democratica di un paese. Per chi crede nella democrazia, ovviamente.